Ora quel giorno era arrivato. Patapam!
«Piacere di rivederti, Scott.»
«Anche per me.» Pessimo mentitore. Gli tremò la bocca e tirò su con il naso. Naso rosso. Quegli occhi. Stupido piccolo idiota.
«Come va?»
«Benissimo. Che cosa posso fare per lei, detective?»
Stu passò un braccio intorno alle spalle ossute di Wembley. «Un bel po’, puoi fare, caro Scott. Troviamoci un posticino dove chiacchierare.»
Lo guidò a una panchina. «Ho bisogno di informazioni su Cart Ramsey», gli spiegò. «Informazioni riservate.»
«Io so solo che hanno parlato di lui al telegiornale.»
«Nessuna vociona o vocina in circolazione da queste parti?»
«Perché dovrebbero essercene?»
«Perché non c’è pettegolo più pettegolo di uno del cinema.»
«Be’, se si parla di lui, a me non è arrivato niente.»
«Mi stai dicendo che nessuno ha niente da raccontare su Ramsey?»
Wembley si morsicò l’interno di una guancia. «Solo… quello che dicono tutti.»
«Cioè?»
«Che l’ha ammazzata lui.»
«E perché dovrebbero dirlo, Scott?»
«La picchiava, no? Forse lui voleva che lei tornasse a stare con lui e lei gli ha detto di no.»
«Questa teoria è tua o di qualcun altro?»
«Di tutti. Anche la vostra, immagino. Se no perché sarebbe qui adesso?»
«Dimmi, Ramsey ha una reputazione di qualche genere?»
Wembley ridacchiò. «Come attore no. Non so un cavolo di lui. Tutta quanta questa faccenda non m’interessa.»
«Ebbene, caro Scott, comincerà a interessarti da adesso», ribatté Stu. «A interessarti moltissimo.»
Ottima giornata oggi, sono proprio contento perché mi è andata bene con il mais. Ora posso tornarmene al Cinque a fare progetti.
Vado verso il cancello con il lucchetto aperto, vedo qualcuno che mi saluta.
I nonnetti strambi. Sono fermi là sulla curva. Il vecchio ha la macchina fotografica in mano. Agitano le braccia tutti e due e lei grida: «Giovanotto? Ci puoi aiutare?»
Io non voglio attirare l’attenzione mettendomi a correre o a comportarmi in modo strano, così ci vado.
«Eccoti qua, bravo», dice lui. Com’è combinato. Ha una maglietta dei Dodgers e i calzoni corti e calzette e scarpe e un cappello celeste. Ha la pelle pallida e un naso grosso e bitorzoluto come quelli del Sunnyside.
La sua macchina fotografica è enorme, in un grande astuccio nero pieno di fibbie e bottoni automatici. Sua moglie ne ha una uguale.
«Scusa il disturbo, amico mio, ma mi sei sembrato un bravo ragazzo», osserva lui con un sorriso pieno di denti gialli.
«Grazie, signore.»
«Cortese», fa lui sorridendo. «Non incontriamo sempre gente cortese. Sono sicuro che lui può farlo, cara.»
Si schiarisce la voce e batte il dito sull’astuccio. «Questa è una Nikon, una macchina giapponese. Io e mia moglie ci chiedevamo se volevi essere così carino da scattarci una foto, così ne abbiamo una dove ci siamo tutti e due.»
«Certo.»
«Grazie mille, figliolo.» Si sfila di tasca un biglietto da un dollaro.
«Non c’è bisogno che mi pagate», dico io.
«No, caro, devi assolutamente accettare», fa la moglie e anche se ha gli occhi nascosti dalle lenti scure degli occhiali, qualcosa sulla sua faccia cambia. È solo un secondo, la bocca che si piega all’ingiù. Come se fosse triste. Piena di malinconia. Come se sapesse che ho bisogno di soldi.
Io penso che se riesco a mostrarmi più povero ancora, mi allunga qualche altro dollaro, allora faccio il cane bastonato, ma lei si limita ad accarezzarmi la mano.
«Prendilo, ti prego.»
Io intasco il dollaro.
«Dunque», fa lui, «adesso siamo in affari.» Altri denti. «Allora, cara, dov’è il posto migliore?»
«Dov’eravamo prima, là il sole è perfetto.» Punta il dito e risale il pendio. Si ferma, pesta con il piede e tocca la sua macchina fotografica. Perché hanno bisogno di due macchine fotografiche è una bella domanda, ma si vede che c’è gente che non si fida delle macchine. O della loro memoria. Forse vogliono essere sicuri di catturare tutto quello che vedono, magari per mostrarlo ai nipoti.
«Qui!» grida. Potrei anche dire che lo canta. È piccolina, pelle e ossa, porta una giacca da uomo sulla maglietta dei Dodgers e un paio di calzoni verdi.
Lui tira fuori la sua macchina dall’astuccio, me la dà, e va a mettersi con lei. Ha l’aria di essere una macchina costosa e non sono tranquillo a reggerla.
«Non temere», dice lei. «È semplice e tu mi sembri un giovanotto in gamba.»
Io li guardo nel mirino. Sono troppo lontani, così mi avvicino.
«È già regolata, figliolo», grida lui. «Basta che schiacci il bottone.»
Io schiaccio. Non succede niente. Provo di nuovo. Niente di nuovo.
«Che cosa succede?» domanda lui.
Io alzo le spalle. «Ho schiacciato.»
«Oh, no», fa lei. «Si è inceppata di nuovo.»
«Fammi dare un’occhiata», dice lui, tornando giù. Gli restituisco la macchina e lui la rovescia. «Ah, il solito guaio.»
«Oh, accidenti», sbotta lei pestando il piede. «Ti avevo detto che ci conveniva portare la mia. Quando torniamo a casa, la prima cosa che faccio è tornare da quel tizio a dirgli che questa volta la deve mettere a posto come si deve!»
Lui mi rivolge un sorriso imbarazzato, come per farmi sapere che non gli va di essere strapazzato da lei in quel modo.
Lei ci raggiunge. Ha l’odore di qualche sapone. Lui sa di cipolle.
«Abbi pazienza, tesoro, ci vorrà solo un minutino», dice lei e apre il suo astuccio e tira fuori… una cosa grossa e nera che non è una macchina fotografica, è una pistola, io non ci credo e all’improvviso lei me la spinge forte nell’ombelico e io non riesco più a respirare e lei spinge, come per farmi entrare la canna dentro la pancia e con l’altro braccio mi prende per il collo e stringe, non sembrava così forte, invece lo è davvero, e anche lui mi ha preso, mi blocca le braccia lungo i fianchi.
Ce li ho da una parte e dall’altra, come se fossero i miei genitori e tutti e tre insieme facessimo una famiglia, solo che io non riesco più a respirare e mi stanno facendo male e lei sta dicendo: «Adesso vieni con noi da bravo, pitocco, e non fare la mossa sbagliata altrimenti ti ammazziamo. Senza scherzi».
Sorride ancora. Non è pietà, ma qualcos’altro, la stessa espressione che aveva la faccia di Moron quando andava a prendere gli attrezzi.
Mi spingono verso il passaggio nel recinto. Lo conoscono anche loro, non è segreto! Che stupido che sono!
La faccia di lei è come una maschera, invece lui ha il respiro corto, è eccitato, ha la bocca aperta e la pelle rosa come la gomma per cancellare in cima a una matita, e mi spara in faccia l’odore di cipolle. Mi trascinano verso il Cinque e lui dice: «Stai per essere fatto, bello mio. Come mai sei stato fatto prima».
Petra rimase al suo posto di lavoro, chiamò il suo contatto alla società dei telefoni e le fu risposto che senz’altro i dati sul traffico corrispondente al numero di Lisa le sarebbero pervenuti quel giorno stesso. Cominciò a preparare l’istanza da presentare al tribunale per ottenere i dati relativi ai mesi precedenti, sentì per telefono il coroner e i criminologi. Ancora nessun referto medico; nessuna impronta trovata sugli abiti, il corpo o i gioielli di Lisa. Forse avevano usato i guanti, ipotizzò il tecnico. Corroborata da un caffè, Petra controllò tutti i depositi di veicoli sequestrati dalla polizia e consultò i registri delle automobili ritrovate. Nessuna traccia della Porsche di Lisa.
Venne l’ora di tornare all’incarico ricevuto da Schoelkopf. Aveva già ascoltato decine di investigatori, coprendo il turno diurno da Van Nuys a Devonshire, aveva interpellato West L.A. e ora riprese dal distretto di Pacific.
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