Jonathan Kellerman - Solo nella notte

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Solo nella notte: краткое содержание, описание и аннотация

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Una e un quarto di notte. Petra Connor, l’affascinante detective della squadra Omicidi di Los Angeles, è svegliata da una telefonata del distretto di polizia: strage al Paradiso Club. Quattro morti. Adolescenti che avevano partecipato a un concerto hip-hop. Perché quell’orrendo massacro? Oltre al gravoso incarico di decifrare il rebus, Petra deve fare da baby sitter al ventiduenne dottorando Isaac Gomez, impegnato in una ricerca statistica sui crimini avvenuti in città dal 1991 al 2001. Il suo Q.I. è superiore alla media, come la sua timidezza e la miseria in cui versa la sua famiglia. E se fosse proprio il giovane e impacciato cervellone a fornire la chiave dell’enigma? Incrociando i dati risultano infatti sei efferati delitti commessi negli ultimi sei anni, tutti subito dopo la mezzanotte. E tutti il 28 giugno. L’assassino sembra divertirsi un mondo a fracassare il cranio delle vittime osservandone colare la materia grigia. Quale disegno segue la follia? E quale legame con la carneficina del Paradiso?

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Vedo subito perché.

Merda. Per terra, dappertutto vicino al recinto dei gorilla.

Ce ne sono cinque fuori, quattro che se ne stanno seduti a grattarsi e a sonnecchiare e uno in piedi come fanno loro, tutto curvo con le mani che quasi toccano terra. Una femmina. I maschi hanno teste gigadontiche e una striscia argentata giù per la schiena.

La femmina si mette a passeggiare, si ferma a controllare che cosa fanno gli altri gorilla, si gratta, fa qualche altro passo. Poi si china e raccoglie un gigantesco pezzo di merda.

E lo scaglia.

Mi passa vicino alla testa, ma mi manca e finisce per terra, molto vicino a me. Esplode in una polvere puzzolente. Un po’ mi finisce sulle scarpe. Le scrollo per pulirle e vedo volare un altro pezzo. E poi un altro.

«Idiota!» mi viene da urlare. Non c’è nessuno.

La gorilla incrocia le braccia sul petto e mi guarda e giuro che sorride, come se fosse non so quale spassosissimo scherzo da gorilla.

Poi mi punta il dito contro. Poi raccoglie un altro pezzo.

Me ne vado. Il mondo è impazzito.

Compro una limonata a un distributore automatico e me ne vado in giro bevendo e sperando che tutta quella polvere di merda venga via, perché sono veramente stufo di cose schifose.

Forse andrò a visitare i rettili, là dentro c’è fresco e penombra e sarebbe bello se vedessi un altro serpente reale con due teste.

Per la via incrocio gli stessi due nonnetti che stanno uscendo e mi sorridono di nuovo, sempre con quell’aria confusa. Passo davanti a boa e anaconda, vipere e lucertole, serpenti a sonagli, aspidi e cobra. Mi trattengo un po’ a guardare un pitone albino, enorme e grasso, con squame bianche, un po’ rosa, e strani occhi rossi.

Rivedrò la sua brutta faccia pallida nei miei sogni questa notte?

Non sarebbe un male se riuscissi a convincerlo a mangiarsi PLYR 1.

Mentre sono lì a guardare mi vedo come il Grande Ammaestratore di Serpenti, che comunica con i rettili tramite la sua forza mentale. Chiamo il Pitone Albino a stringersi intorno a PLYR 1, così me lo schiaccia, me lo spreme come succo d’arancia.

Sapere che cosa sta per succedere. È peggio che morire. Sapere.

Un po’ più tardi, vicino allo zoo, accanto a un campo giochi che dev’essere per i bambini più piccoli che si stufano degli animali, trovo un orto circondato da una corda.

Mais e fagioli e pomodori e peperoni. Il cartello dice che è per le bestie, così hanno cibo fresco. Ho visto gli scimpanzé mangiare pannocchie, quindi forse lo fanno anche i gorilla, e allora mi viene un’idea.

Anche a me piace il mais, le pannocchie dolci fatte lesse, però a casa non lo si mangiava mai. Una volta a scuola avevano organizzato un picnic per il Ringraziamento in cortile, tacchino e mais e patate dolci con marshmallow per chi aveva da pagare. Tutto impilato su tavoloni lunghi, con le mamme in grembiule a distribuire. Io ci sono andato a dare una occhiata anche se non avevo i soldi per comperare qualcosa. Mi sono trattenuto fino alla fine, ho trovato un paio di monetine da un quarto e le ho usate per giocare alle macchinette, ma quanto a mangiare era fuori questione, ci volevano cinque dollari.

Una delle signore ai tavoli, però, mi ha visto che guardavo le pannocchie e me ne ha data una intera, color giallo margherita e luccicante di burro, con una coscia di tacchino che ci avrebbe mangiato una famiglia intera. Me ne sono andato sotto un albero ed è stata la più bella festa del Ringraziamento che ho mai avuto.

Ora mi avvicino all’orto e guardo in giro.

Via libera.

Scavalco la corda, vado diritto al mais, stacco tre pannocchie e me le ficco in tasca. Sporgono, così le nascondo sotto la maglietta, riscavalco come se nulla fosse e mi allontano adagio finché trovo un bagno.

Entro in uno dei box, chiudo la porta, mi siedo sul coperchio e tiro fuori le pannocchie, le sbuccio togliendo le foglie e quella barbetta e mi chiedo che sapore avranno i chicchi crudi.

Buoni. Duri, da sgranocchiare, niente di così delicato come il mais bollito con il burro, ma hanno il sapore giusto, dolce. Faccio fuori due pannocchie in fretta, la terza più lentamente, masticando molto e mandando giù tutto mentre leggo le parolacce che ci sono scritte sui muri. Quando ho finito lecco tutto il sapore di mais dai torsoli, li lascio in un angolo del box, faccio pipì e uso il lavandino che c’è fuori per lavarmi faccia e mani. Poi mi arrotolo i jeans e mi lavo un po’ anche le gambe.

Ho mal di pancia, ma diverso dal solito.

Troppo pieno. Ho fatto indigestione.

Ora il tuo pranzo è mio, gorilla.

La vendetta è dolce come il mais!

17

Mentre tornavano in sala operativa, Stu commentò: «L’ha picchiata una volta sola. Che uomo».

«Passarci sopra per rivolgersi direttamente a Schoelkopf», mormorò Petra. «Un intrigante.» Si diede subito della farisea. Avanti, sputa il rospo.

Si fermò e si appoggiò a un armadietto. «Perché hai tirato fuori la storia del libro?»

Si appoggiò anche Stu. «Era qualcosa di tangibile e volevo evitarci una delle sue conferenze sulla vacuità delle congetture e la concretezza dei fatti.»

«Ci siamo buscati una conferenza lo stesso.»

Lui si strinse nelle spalle.

«Lui pensa che quel libro sia una fesseria. Tu sei d’accordo, vero?»

Stu si raddrizzò e si pizzicò il nodo della cravatta. «Penso che sia la leva che solleverà il mondo? No, ma in laboratorio guarderanno se ci sono impronte sul libro e se si tratta di un barbone c’è la possibilità che sia schedato da qualche parte e allora forse riusciamo a rintracciarlo. Se non ne caviamo nulla, la situazione non sarà peggiorata.»

Lei non rispose.

«Che c’è?» chiese lui.

«Mi hai preso in contropiede tirandolo fuori così.»

«Si vede che anch’io sono capace di qualche sorpresa.» I suoi occhi non rivelarono nulla. S’incamminò senza girarsi per vedere se lei lo seguiva.

Petra rimase dov’era, a pugni stretti. Ricordò i modi laconici di Kathy, la sera prima al telefono. Se c’erano problemi coniugali, non poteva aspettarsi che lui glieli confidasse. D’accordo, calmati, concentrati sul lavoro. Ma detestava le sorprese.

Degli altri venticinque detective di Hollywood in servizio quella mattina, sei erano ai loro tavoli a passare in rassegna foto segnaletiche, a digitare sulle tastiere di computer appena donati al dipartimento e ancora misteriosi e incomprensibili, a borbottare al telefono, a leggere gialli. Quando entrarono, tutti alzarono gli occhi e rivolsero loro sguardi di solidarietà.

Qualunque amante di gialli, che trovasse stimolante il mistero, cambiava velocemente idea se entrava nella polizia. Il caso Ramsey era un autentico spauracchio per tutti. La stanza aveva l’odore giusto di ciò che era: uno spaccio senza finestre saturato da senso di frustrazione soprattutto maschile.

Un D-2 nero di nome Wilson Fournier disse: «Sapevo che vi sareste divertiti quando il capo è arrivato così presto masticando gomma senza gomma in bocca».

Petra gli sorrise e lui riprese a esaminare foto delle gang. Stu era alla sua scrivania disposta di fronte a quella di lei, in fondo allo stanzone. Petra si sedette e attese.

«Che cosa vuoi fare sulla ricerca dei casi analoghi?» domandò Stu.

«Non molto.»

Lui s’infilò i pollici sotto le bretelle. La sua 9 mm era in una fondina da ascella agganciata molto in alto. La portava così anche Petra. Le faceva male al braccio e se la tolse.

«Da come la vedo io abbiamo due possibilità», cominciò Stu. «Andiamo a Parker e visioniamo microfilm per tutta la settimana. Poi dovremmo comunque metterci al telefono per controllare Burbank, Altwater, Glendale e tutti i distretti di contea. Oppure facciamo tutto per telefono, sentendo tutti i detective delle squadre Omicidi che riusciamo a trovare. Schoelkopf ha detto due o tre anni. Facciamo due. Può darsi che ci vada bene e che chiudiamo entro la settimana. Personalmente preferirei parlare con gente in carne e ossa invece che sfogliare schedari alla Centrale, ma dipende da te.»

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