David Baldacci - Il biglietto vincente
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- Название:Il biglietto vincente
- Автор:
- Издательство:Mondadori
- Жанр:
- Год:1998
- Город:Milano
- ISBN:88-04-47086-0
- Рейтинг книги:3 / 5. Голосов: 1
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Un intrigo micidiale, costruito come un congegno a orologeria.
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Ricostruire l’ultimo giorno che LuAnn Tyler aveva passato negli Stati Uniti poteva essere un’altra possibilità per risolvere l’enigma. Donovan parlò con il Dipartimento di Polizia e con l’ufficio dell’Fbi di New York. Roy Waymer, il vecchio sceriffo di Rikersville, aveva visto in televisione LuAnn Tyler ricevere il premio della lotteria. Era stato lui a dare l’allarme per primo, informando la polizia di New York che LuAnn Tyler era ricercata in Georgia in relazione a un duplice omicidio e a traffico di droga. Il NYPD aveva sorvegliato aeroporti, stazioni ferroviarie e stazioni degli autobus, quanto di meglio si poteva fare per trovarla. In una città di sette milioni di abitanti non era certo pensabile organizzare dei blocchi stradali. Niente da fare. LuAnn Tyler era letteralmente svanita. La qual cosa aveva lasciato l’Fbi di sasso. Che una ragazza di vent’anni, poco istruita, arrivata dal profondo Sud con una bambina di otto mesi, fosse riuscita bellamente a scivolare attraverso la loro rete era a dir poco enigmatico, se non mortificante. Travestimenti e documenti falsi parevano poco plausibili. La polizia aveva alzato le barriere nemmeno mezz’ora dopo la conferenza stampa alla Commissione Lotterie. Nessuno poteva essere tanto rapido ed efficiente. E LuAnn Tyler non era svanita da sola, era svanita con cento milioni di dollari.
A quel punto negli ambienti dell’Fbi era circolata l’idea che qualcuno l’avesse aiutata. Ma non per molto. Erano arrivati altri problemi e fra terrorismo, dirottamenti e attentati il Bureau aveva avuto ben altro di cui occuparsi. La conclusione ufficiale era stata che LuAnn Tyler non era affatto andata all’estero. Aveva semplicemente lasciato New York in macchina, in treno o in metropolitana, quindi si era fatta inghiottire da quel vasto magma umano che sono gli Stati Uniti d’America. Al massimo, poteva essere arrivata in Canada. Il NYPD aveva annunciato allo sceriffo Waymer che la cosa si era risolta in un solenne buco nell’acqua. Fine della trasmissione.
Per Thomas Donovan, invece, la trasmissione era appena incominciata. Il suo istinto gli diceva che LuAnn Tyler era fuggita all’estero. Questa era la premessa di tutto. E per averlo fatto con tale rapidità, poteva essere fuggita solamente in aereo. Donovan avrebbe cominciato a esaminare le liste passeggeri in partenza dall’aeroporto Kennedy dieci anni prima. Se da quelle non fosse emerso niente, sarebbe passato all’aeroporto La Guardia e poi a quello di Newark, nel New Jersey. Era pur sempre un punto di partenza. C’erano meno voli internazionali che nazionali. Ma se la ricerca avesse dovuto estendersi anche ai voli interni, sarebbe dovuto ricorrere a un altro metodo: ce n’erano troppi, infatti.
Quando stava per mettersi al lavoro, arrivò al giornale il pacco dello sceriffo Harvey.
Donovan iniziò a scorrerne il contenuto senza smettere di mangiare il panino che costituiva il suo pranzo. Non smise di mangiare nemmeno di fronte alle agghiaccianti immagini degli esami necroscopici. Niente che non avesse già visto, sia in foto sia dal vero. Studiò il dossier per un’ora, prendendo copiosi appunti. Da come la vedeva lui, e in barba all’incazzatura a scoppio ritardato dello sceriffo Billy Harvey, LuAnn Tyler non c’entrava affatto con i due delitti.
Donovan aveva compiuto qualche piccola indagine per conto suo, giù a Rikersville, e per ammissione popolare, il compianto Duane Harvey era stato nient’altro che un indegno paraculo, beone e puttaniere. Per contro, LuAnn Tyler aveva reputazione di essere una ragazza onesta e una brava madre. Un’orfana adolescente che, in circostanze di estrema durezza, aveva sempre dato il meglio di sé. Donovan aveva visto molte sue foto e anche la cassetta con la registrazione della conferenza stampa nella quale era stata consacrata vincitrice di cento milioni di dollari. Era un fior di ragazza, nessun dubbio in merito, ma dietro la sua bellezza c’era molto di più: LuAnn Tyler non avrebbe potuto tenersi a galla semplicemente in virtù di un bel paio di tette.
Donovan finì il panino e concluse il suo pasto con una tazza di caffè. Nella roulotte maledetta, Duane Harvey era stato malamente lavorato con una lama. L’altro balordo, tale Otis Burns, aveva tirato le cuoia a causa della stessa lama. Burns aveva inoltre riportato un grave trauma cranico, anche se non letale, e su di lui c’erano i segni di una colluttazione. Le impronte digitali di LuAnn erano state trovate sul telefono distrutto, che probabilmente era stato rotto contro la testa di Burns, e dappertutto nella roulotte. Cosa del tutto logica, dato che LuAnn Tyler in quella roulotte ci viveva. A sentire un unico testimone oculare, quella stessa mattina LuAnn era stata vista al volante della macchina di Burns. A dispetto di quanto sosteneva lo sceriffo Harvey, Donovan era giunto alla conclusione che lo spacciatore in famiglia fosse Duane e non LuAnn. A un certo punto, però, Duane aveva voluto fare il furbo e Burns, verosimilmente il grossista della merce, era arrivato a tagliargli i fondi. Nella vicina Contea di Gwinnett, Otis Burns era schedato per numerosi reati, tutti relativi alla droga. Nessuno era in grado di dire se LuAnn fosse a conoscenza dell’attività di Duane. Aveva lavorato in una tavola calda per camionisti, aveva comprato il biglietto della lotteria ed era scomparsa, per riapparire brevemente a New York e intascare i cento milioni di dollari. Se anche sapeva della nuova linea di affari di Duane, non sembrava averne tratto alcun tornaconto. Se poi fosse anche lei nella roulotte quella mattina, e se avesse avuto a che fare con i delitti non era sicuro, ma a Thomas Donovan ciò non interessava. Non aveva alcuna ragione di provare simpatia per due ceffi come Burns o Harvey. Non aveva nemmeno le idee chiare su LuAnn Tyler. Su un solo punto aveva le idee chiare: voleva trovarla.
20
Con gli occhi chiusi e le mani quietamente intrecciate in grembo, Jackson sedeva da solo nella penombra del lussuoso attico, in uno dei più classici edifici anteguerra di New York. L’arredamento era una mescolanza di stili e di culture diverse: spagnola, francese, italiana, il tutto punteggiato di elementi asiatici. Oltre le finestre panoramiche, immersa nella luminosità morente del crepuscolo, c’era la massa verde cupo di Central Park.
All’età di quarant’anni, il suo corpo continuava a essere asciutto e atletico. I lineamenti aristocratici del volto avevano conservato un’inquietante componente androgina, nonostante esili rughe di espressione fossero comparse sulla fronte, sulle tempie e ai lati della bocca. Solamente gli occhi erano rimasti assolutamente identici: occhi che doveva attentamente tenere nascosti quando entrava in azione.
Jackson si alzò e lentamente si recò nell’area del suo appartamento adibita a studio, laboratorio e guardaroba: pareva il sontuoso camerino di una star di Broadway. Fari alogeni allagavano il soffitto di luce soffusa. Altra luce proveniva dalle lampadine a bassa emissione termica sistemate lungo il perimetro degli specchi che tappezzavano le pareti della stanza. Due comode poltrone di pelle, reclinabili e montate su binari che ne consentivano lo spostamento, erano sistemate di fronte ai due specchi più grandi. Oltre agli specchi, lungo le pareti, c’erano grossi pannelli di sughero con appuntate centinaia di fotografie. Volti. Uomini, donne, vecchi. Gente che camminava per strada, gente che faceva la spesa, gente che passava in macchina. Jackson scattava fotografie costantemente, in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo. Molti di quei volti avevano costituito il modello per la maggior parte delle identità che aveva assunto nel cor so degli anni.
Ogni singolo aspetto dell’organizzazione di quel locale rifletteva la metodicità della sua mente. Un intero armadio era occupato da parrucche femminili e maschili, tutte accuratamente collocate su teste di filo metallico, separate a seconda del colore, della morfologia e della lunghezza dei capelli. Altri armadi e armadietti fatti su misura ospitavano calotte e protesi di lattice in grado di modificare la forma del cranio e di qualsiasi altra parte del corpo. Ospitavano anche sopradenti di plastica, capsule di acrilico, placche sottolabiali, stampi di riconformazione anatomica e blocchi di pongo cosmetico autoindurente. Su un massiccio scaffale metallico c’era un set completo per il makeup con cotone assorbente, collante antiallergico, talco cosmetico, lozioni per il corpo e pennelli di tutte le dimensioni con setole morbide e dure, fondotinta di varie tonalità, creta per modellare i lineamenti, colloidi per creare cicatrici, verruche, butterazioni, nei, melanociti, rughe; materiali per preparare barbe, baffi e sopracciglia; creme di diversa densità, cere depilanti, gelatine trasparenti e colorate, e poi retini, garze, spatole, tamponi assorbenti, strumenti per l’acconciatura dei capelli. Tre armadi forniti di specchi a tutta altezza erano pieni di abiti maschili e femminili, camicie, bluse, cappelli, cravatte. Nelle loro cassettiere multiple trovavano posto cinquanta diverse serie di documenti d’identità, passaporti, patenti, certificati di vaccinazione e carte di credito.
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