David Baldacci - Il biglietto vincente

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Il biglietto vincente: краткое содержание, описание и аннотация

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l destino sembra sorridere a LuAnn, giovane disoccupata: il misterioso signor Jackson le offre infatti il biglietto vincente di una lotteria che vale milioni di dollari. Ma prima di riuscire a godere della sua grande occasione, la ragazza trova a casa il cadavere del suo uomo in un lago di sangue e si scopre braccata dalla polizia, preda di una trappola mortale.
Un intrigo micidiale, costruito come un congegno a orologeria.

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LuAnn sentiva il cuore martellarle nel petto. Ebbe la fugace visione di sé che crollava con la faccia in avanti nella ghiaia, folgorata da un attacco cardiaco identico a quello che aveva stroncato suo padre. Poteva darsi che esistesse chissà quale misterioso difetto organico, eredità genetica della discendenza di Benny Tyler. Un subdolo killer invisibile, sempre in agguato, pronto a strappare un altro Tyler dalla faccia della Terra.

LuAnn rallentò. Lisa aveva cominciato a lamentarsi troppo e a piangere. Allentando la stretta sulla piccola, sussurrandole paroline all’orecchio per calmarla e muovendosi in grandi, lenti cerchi sotto l’ombra degli alberi, LuAnn finalmente si fermò. E anche il pianto della bambina cessò.

LuAnn camminò per il resto della strada che separava il cimitero dalla Airstream. Benny Tyler le aveva parlato, e gli ultimi dubbi si erano dissipati nel nulla. Adesso aveva la risposta.

Avrebbe messo quanto poteva in una valigia e avrebbe poi chiesto a qualcuno di andare a prelevare il resto. Per un po’ si sarebbe fatta ospitare da Beth, che insisteva da un pezzo perché andasse a stare da lei. Beth abitava in una vecchia casa colonica con un sacco di stanze, e dopo la morte di suo marito la sua unica compagnia erano un paio di gatti che, a sentire lei, la superavano quanto a pazzia. LuAnn aveva deciso: sarebbe tornata a scuola, a costo di portare Lisa con sé in aula. Non aveva importanza. Si sarebbe iscritta al college municipale e avrebbe preso il diploma. Se c’era riuscito Johnny Jarvis, perché non avrebbe potuto riuscirci anche lei?

Quanto al signor Jackson e alle sue palline magiche, avrebbe trovato qualcun altro per prendere il suo posto. Questo era un problema che non la riguardava più.

Per anni aveva cercato risposte come quelle. Ora le aveva trovate. E nel trovarle, il peso del mondo si era sollevato dalle sue spalle. Sua madre le aveva parlato. Forse lo aveva fatto in modo indiretto, ma l’incantesimo aveva comunque avuto luogo.

— Non dimenticare mai quelli che abbiamo amato e che adesso non sono più quaggiù con noi — sussurrò a Lisa. — Noi non sappiamo. Loro sanno.

LuAnn arrivò sulla sommità del dosso affiancato dai boschi scuri. Il giorno prima, Duane Harvey era pieno di soldi. Chissà quanti gliene restavano. Nel momento in cui si ritrovava qualche dollaro in tasca, Duane era sempre fin troppo svelto a offrire da bere a destra e a sinistra. Lo sapeva il cielo come poteva aver bruciato le mazzette nascoste sotto il letto. LuAnn non gli aveva neppure chiesto da dove provenivano quei soldi. Per quanto la riguardava, erano solo un’ulteriore ragione per andarsene.

Discese la strada tortuosa sull’altro lato del dosso. Uno stormo di uccelli neri si sollevò gracchiando dagli alberi, e il loro improvviso battito d’ali la fece sussultare. La Airstream era una sagoma immobile circondata dalla sua corte di relitti e di rottami. Ma adesso, c’era qualcos’altro tra relitti e rottami.

Un’auto nera. Una grossa decappottabile, la vernice troppo lucida, con troppe cromature di cattivo gusto. Sul cofano spiccava una specie di ornamento, anch’esso pesantemente cromato. Da lontano pareva avere la forma di una donna impegnata in qualche atto osceno. LuAnn continuò ad avanzare, ma molto più lentamente. Il furgone di Duane era sotto sequestro. Nessuno dei suoi amici buzzurri e ubriaconi poteva permettersi una macchina del genere.

Quell’auto nera, con quelle ruote da pappone, semplicemente non doveva esserci.

LuAnn si avvicinò cauta, dando uno sguardo più attento. Nulla che potesse fornire indicazioni sul guidatore. I sedili anteriori, con telefono cellulare sul ponte intermedio, erano foderati di pelle bianca con rifiniture di cuoio color porpora. L’interno dell’auto era assurdamente tirato a lustro, la plancia talmente lucida che quasi ci volevano gli occhiali scuri per guardarla. Le chiavi erano state lasciate nel quadro, con il portachiavi a forma di lattina di birra Budweiser. Forse Duane Harvey era definitivamente andato fuori di testa e aveva comprato questo cesso su ruote a raggi.

LuAnn salì i due gradini di mattoni di cemento. Rimase in ascolto fuori della porta a zanzariera. Silenzio. Decise di entrare. A Duane aveva già spaccato il grugno una volta, poteva farlo anche una seconda.

— Duane?

Sbatté violentemente la porta della Airstream.

— Che diavolo fai, Duane? È tua quella roba qua fuori?

Nessun rumore, nemmeno un respiro. LuAnn mise Lisa col seggiolino a terra e avanzò verso il fondo della roulotte.

— Duane? Mi rispondi o cosa? Non ho tempo per gli scherzi.

Si affacciò nella stanza da letto, ma Duane non c’era. Gli occhi corsero alla sveglia di sua nonna: fu la prima cosa che fece sparire nella borsa. Non l’avrebbe mai lasciata, mai. Arretrò nel corridoio, fino a Lisa. La piccola era agitata. LuAnn posò la borsa accanto al seggiolino e fece una breve sosta per calmarla. Intanto scrutò verso la parte anteriore della roulotte.

Duane Harvey era a casa. Stava seduto sullo sbrindellato divanetto del soggiorno. Sul tavolino accanto a lui c’era un secchiello di cartone del Kentucky Fried Chicken. Bisunti pezzi di pollo mangiati a metà, patatine fritte rovesciate, chiazze di ketchup sparse come sangue troppo denso, lattine di birra vuote e accartocciate. Resti della cena di ieri, oppure della colazione di oggi. La malridotta televisione era accesa. Niente suono, soltanto immagini baluginanti.

— Ehi, Duane, sei sordo?

Lui girò la testa verso di lei. Un movimento di una lentezza surreale, da ubriaco.

— Tu proprio non vuoi crescere, eh, Duane? — LuAnn era inferocita. — Dobbiamo fare un bel discorsetto, io e te. E a te non piacerà. Ma vuoi saperne una? Non me ne frega niente se non ti pia…

La mano venne fuori dal nulla, coprendole la bocca fin quasi a soffocarla. Un braccio spesso come una trave le strinse la vita, immobilizzandole le braccia lungo i fianchi. Vanamente i suoi occhi dilatati passarono da un angolo all’altro del minuscolo ambiente.

Duane Harvey non era ubriaco. Duane Harvey era morto. Il petto della sua camicia era fradicio di sangue. Sangue vero, non ketchup. Il suo corpo crollò in avanti, come un pupazzo di stracci abbattuto dal vento.

La mano passò dalla bocca di LuAnn alla gola. La morsa spinse il mento verso l’alto, la brutale pressione le fece scricchiolare le vertebre cervicali.

— Un vero peccato, mia cara…

Una voce roca, che LuAnn non riconobbe. E insieme alla voce, le arrivò un alito pesante, fetido, saturo di un tanfo misto di pollo fritto del Kentucky e birra dozzinale. Un alito rivoltante che le premeva contro il volto.

— Cara signora, sei nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.

LuAnn vide l’altra mano. E vide la lama del coltello che si sollevava verso di lei. Verso la sua gola. Fu quello l’errore del suo assalitore. Nell’alzare il coltello le aveva lasciato entrambe le braccia libere. Forse aveva creduto che fosse rimasta paralizzata dal terrore. Tutt’altro. LuAnn scalciò all’indietro, colpendo con il tallone il ginocchio di lui come lo zoccolo di un mulo. Simultaneamente pestò a fondo con il gomito nel suo ventre flaccido, all’altezza del diaframma.

L’uomo sussultò, la lama che s’impennava tagliandole il mento in diagonale. Un fiotto rosso si disperse nell’aria ferma della Airstream. LuAnn sentì in bocca il gusto del sangue, il proprio sangue. L’uomo cadde in ginocchio sul pavimento, sputando e gorgogliando. Il grosso coltello da caccia cadde sulla moquette, intrisa di altro sangue, quello di Duane Harvey.

LuAnn partì in fuga verso la porta della roulotte, ma la mano sinistra del killer si chiuse in una morsa intorno alla caviglia di lei, trascinandola a terra. LuAnn rotolò sulla schiena, riuscendo ad assestargli un calcio in piena faccia. Per la prima volta riusciva a vederla: carnagione bianchiccia scottata dal sole, sopracciglia cespugliose unite al centro, capelli zeppi di brillantina da quattro soldi, labbra ora distorte in una smorfia di dolore grottesca. LuAnn non poté vedere i suoi occhi, semichiusi mentre incassava la pedata. Era invece del tutto evidente che si trattava di un gorilla grosso almeno il doppio di lei. Dalla stretta che lui continuava a esercitare sulla sua caviglia, ebbe la conferma che sul piano della forza fisica non ci poteva essere confronto. Ma LuAnn non avrebbe lasciato sua figlia a portata di quell’energumeno. A nessun costo!

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