Tenendosi stretto a Laura, Chris esclamò: «Accidenti! Hai visto che roba, mamma? Non è fantastico?»
Laura non rispose perché aveva notato una macchina bianca che aveva abbandonato la strada e stava avanzando nel deserto. Aveva puntato nella loro direzione e ora stava avanzando a tutta velocità.
«Chris, vai davanti alla macchina. Stai giù!»
Il bambino vide la macchina e obbedì senza discutere.
Laura si precipitò verso la portiera aperta della Buick e afferrò uno dei fucili mitragliatori posati sul sedile. Si appostò sul retro dell’auto, accanto al bagagliaio aperto, di fronte alla macchina in arrivo.
Era a meno di duecento metri e si stava avvicinando a tutta velocità. I raggi del sole si riflettevano sulla lamiera cromata, scintillavano sul parabrezza.
Laura considerò la possibilità che gli occupanti non fossero agenti tedeschi provenienti dal 1944, ma persone innocenti. Ma era un’ipotesi troppo improbabile.
Il destino lotta per riaffermare il modello predestinato.
No, dannazione, no.
Quando l’auto fu a un centinaio di metri, Laura fece partire due raffiche e vide che le pallottole avevano perforato almeno in due punti il parabrezza. Il resto del vetro si incrinò all’istante.
L’auto — una Toyota — compì un intero giro su se stessa, poi girò di altri novanta gradi, sollevando nuvole di polvere e sradicando un paio di cespugli ancora verdi. Si arrestò a una sessantina di metri, l’estremità anteriore puntata verso nord.
Dall’altra parte le portiere si spalancarono e Laura sapeva che gli occupanti stavano sgattaiolando fuori dall’auto, senza che lei potesse vederli. Aprì nuovamente il fuoco, non nella speranza di colpirli attraverso la Toyota, ma con l’intenzione di forare il serbatoio della benzina. Sapeva che una scintilla, provocata dall’urto di una pallottola contro la lamiera di metallo, avrebbe incendiato la benzina e gli uomini che si nascondevano contro la fiancata dell’auto sarebbero così stati avvolti dalle fiamme. Riuscì solo a svuotare il caricatore dell’Uzi, senza provocare alcun incendio, anche se quasi certamente aveva svuotato il serbatoio.
Gettò via la mitragliatrice, spalancò la portiera posteriore della Buick e afferrò l’altro Uzi. Dal sedile anteriore prese la calibro 38 senza staccare gli occhi dalla Toyota bianca per più di un secondo. In quell’attimo pensò che se Stefan avesse lasciato il suo Uzi, dopotutto, sarebbe stato meglio.
Di fronte a lei, uno degli uomini armati aprì il fuoco con un’arma automatica. Ora non c’era più alcun dubbio sulle loro identità. Mentre Laura si buttava contro il fianco della Buick, le pallottole si conficcarono nel bagagliaio aperto, mandarono in frantumi il vetro posteriore, perforarono i parafanghi, rimbalzarono sui paraurti e sulla superficie rocciosa circostante e sollevarono nuvolette di sabbia bianca.
Udì un paio di pallottole sibilare proprio sopra la sua testa. Gemiti appena sussurrati, acuti, mortali. Cominciò a indietreggiare verso il muso della Buick , schiacciandosi il più possibile contro la fiancata per essere un bersaglio meno facile. In breve raggiunse Chris, addossato alla griglia del radiatore.
L’uomo dall’altra parte smise di sparare.
«Mamma?» sussurrò Chris spaventato.
«Non ti preoccupare», rispose Laura, cercando di credere alle sue stesse parole. «Stefan sarà qui a minuti, tesoro, ha un altro Uzi con sé e con quello saremo quasi ad armi pari. Andrà tutto bene. Dobbiamo tenerli a bada solo per qualche minuto. È solo questione di minuti.»
La cintura di Kokoschka riportò Stefan all’istituto in un lampo. Quando si materializzò nel tunnel l’ugello sul cilindro del Vexxon era completamente aperto. Stringeva il manico con tale forza che la mano era indolenzita.
Dal punto in cui si trovava riusciva a vedere solo una piccola parte del laboratorio. Intravide due uomini dagli abiti scuri, che stavano sbirciando all’estremità del tunnel. Assomigliavano molto ad agenti della Gestapo, tutti quei bastardi sembravano essere stati procreati dallo stesso piccolo gruppo di degenerati e fanatici e si sentì sollevato al pensiero che non potevano vederlo altrettanto chiaramente.
Per un attimo avrebbero pensato che si trattasse di Kokoschka.
Cominciò ad avanzare, tenendo davanti a sé la bomboletta di Vexxon che sibilava rumorosamente. Nella mano destra impugnava la pistola. Prima che gli uomini nel laboratorio potessero intuire che qualcosa non andava furono investiti dal gas nervino. Crollarono a terra, ai piedi del tunnel, e quando Stefan finalmente mise piede nel laboratorio, stavano ormai agonizzando. Avevano vomitato e dalle narici colavano rivoli di sangue. Uno era riverso su un fianco, scalciava e si ghermiva la gola con le mani; l’altro stava raggomitolato su un fianco, in posizione fetale, e con le dita si stava artigliando orribilmente gli occhi. Accanto al quadro di programmazione del tunnel altri tre uomini — Stefan li conosceva: Hoepner, Eicke, Schmauser — erano distesi a terra. Si agitavano come se fossero pazzi o idrofobi. Tutti e cinque stavano cercando di urlare, ma avevano la gola chiusa. Riuscivano solo a emettere deboli, striduli suoni, simili al piagnucolio di animaletti sottoposti a tortura. Stefan rimase apparentemente impassibile, ma, nel profondo, atterrito e inorridito. Morirono nel giro di quaranta secondi.
A questi uomini era stata riservata una giustizia crudele, poiché coloro che avevano sintetizzato il primo gas nervino nel 1936, erano stati proprio dei ricercatori finanziati dai nazisti. Tutti i successivi gas nervini derivavano da quel primo composto chimico. Compreso il Vexxon. Questi uomini, nel 1944, erano stati uccisi da un’arma del futuro, certo, ma pur sempre una sostanza che aveva avuto le sue origini in quella società malata, fondata sulla morte.
Quei cinque cadaveri non diedero alcuna soddisfazione a Stefan. Aveva assistito a tanti omicidi nella vita, che persino lo sterminio del colpevole a favore dell’innocente, persino l’omicidio al servizio della giustizia lo ripugnava. Ma riuscì ugualmente a fare ciò che doveva.
Posò la pistola sul bancone del laboratorio. Si sfilò l’Uzi e mise da parte anche quello.
Da una tasca dei jeans estrasse uno spago che utilizzò per tenere sollevato l’anello dalla bomboletta di Vexxon. Andò in corridoio e mise il cilindro al centro. In pochi minuti il gas si sarebbe propagato in tutto l’edificio attraverso le trombe delle scale, i pozzi degli ascensori e i condotti di aerazione.
Rimase sorpreso quando si accorse che il corridoio era illuminato solo dalle lampade schermate e che gli altri laboratori al pianterreno sembravano deserti. Lasciò che il gas si propagasse e tornò al quadro di programmazione nel laboratorio principale per controllare in che giorno e a che ora la cintura di Heinrich Kokoschka l’aveva riportato. Erano le nove e undici minuti del 16 marzo.
Era un inaspettato colpo di fortuna. Stefan si era aspettato di tornare all’istituto in un’ora in cui gran parte del personale sarebbe stato sul luogo. Ciò avrebbe significato almeno un centinaio di corpi sparsi in tutto l’edificio di quattro piani; e quando li avessero scoperti, si sarebbe saputo che solo Stefan Krieger, utilizzando la cintura di Kokoschka e penetrando nell’istituto attraverso il tunnel, poteva essere il responsabile. Avrebbero intuito che non era tornato semplicemente per uccidere quanti del personale si trovavano nell’edificio, ma che aveva in mente qualcos’altro e allora avrebbero intensificato le ricerche per scoprire la natura del suo piano e avrebbero annullato ciò che aveva già fatto. Ma ora… se, come sembrava, l’edificio era praticamente vuoto, avrebbe potuto disporre quei pochi cadaveri in modo tale da occultare la sua presenza e dirigere tutti i sospetti su quei morti.
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