«Ti sottovaluti, Thelma. L’hai sempre fatto. Ma qualcuno di veramente speciale scoprirà il tesoro che c’è in te…»
«Sì. Charles Manson quando verrà rilasciato sulla parola.»
«No. Un giorno anche tu potrai vivere attimo per attimo la felicità che sto assaporando io. Lo sento. È destino, Thelma.»
«Santi numi, Shane, sei diventata un’ottimista scatenata! E che cosa mi dici dei lampi? E di tutti quei discorsi così profondi che facevamo al Caswell, ricordi? Arrivammo alla conclusione che la vita non è che un’assurda commedia, che di tanto in tanto viene interrotta dai fulmini della tragedia per equilibrare la storia, per far sì che la farsa grottesca delle torte in faccia, al confronto, sembri più buffa.»
«Forse ha colpito per l’ultima volta nella mia vita», disse Laura.
Thelma la fissò duramente. «Ti conosco, Shane, e so che conosci perfettamente qual è il rischio emotivo in cui ti stai cacciando solo per il semplice fatto di voler essere così felice. Spero tu abbia ragione, amica mia, e scommetto che è così. Scommetto che non ci saranno più lampi per te.»
«Grazie, Thelma.»
«E penso che il tuo Danny sia un tesoro, un gioiello. Ma ti dirò di più. Anche a Ruthie sarebbe piaciuto. Ruthie avrebbe pensato che è perfetto.»
Si strinsero in un forte abbraccio e per un attimo furono di nuovo due ragazzine, provocatorie e vulnerabili, assurdamente fiduciose e al contempo terrorizzate dal cieco destino che aveva segnato così profondamente l’adolescenza che avevano condiviso.
Domenica 24 luglio, di ritorno dalla luna di miele a Santa Barbara, andarono a fare la spesa e poi prepararono insieme la cena nel loro appartamento di Tustin: spaghetti saltati in padella, pane integrale, polpettine al forno e insalata. Laura aveva lasciato il suo appartamento e si era trasferita da Daniel qualche giorno prima del matrimonio. Secondo il piano che avevano elaborato sarebbero rimasti in quell’appartamento per due anni, forse tre. (Avevano parlato così spesso del loro futuro e in termini così dettagliati che nelle loro menti avevano riassunto il tutto in due sole parole, Il Piano.) Perciò dopo due, forse tre anni, avrebbero potuto permettersi di versare un anticipo in contanti per una casa che rispondesse meglio alle loro esigenze, senza intaccare il rispettabile portafolio di azioni che Danny si stava creando, e solo allora avrebbero potuto spostarsi.
La cucina si apriva sul pergolato del giardino, dove cenarono godendo dello spettacolo delle palme giganti nella luce dorata del tramonto. Discussero la parte centrale del Piano, che prevedeva che Danny provvedesse al mantenimento, mentre Laura sarebbe rimasta a casa a scrivere il suo primo romanzo. «E quando diventerai ricca e famosa», disse Danny, mentre arrotolava gli spaghetti sulla forchetta, «allora io lascerò il mio lavoro per dedicarmi completamente ad amministrare i tuoi guadagni.»
«E che cosa succederà se non diventerò né ricca né famosa?»
«Ah, lo diventerai di sicuro.»
«E che cosa succederà se non riuscirò a pubblicare neppure un romanzo?»
«Chiederò il divorzio.»
Laura gli gettò un pezzo di pane. «Porco!»
«Bisbetica.»
«Vuoi un’altra polpetta?»
«No, se hai intenzione di tirarmela dietro!»
«No, mi è già sbollita la collera. Sono buone le mie polpettine, vero?»
«Eccellenti», confermò Danny.
«Allora, non credi che valga la pena di festeggiare, visto che hai una moglie che prepara delle ottime polpette?»
«Ne vale decisamente la pena.»
«Allora facciamo l’amore.»
«Nel bel mezzo della cena?»
«No, a letto.» Laura spinse indietro la sedia e si alzò. «Su, vieni, la cena si può sempre riscaldare.»
Durante quel primo anno fecero spesso l’amore e nell’intimità Laura trovò qualcosa che andava al di là del semplice sfogo sessuale, qualcosa che superava di gran lunga le sue aspettative. Quando era con Danny, quando lo teneva dentro di sé, si sentiva così vicina a lui che a volte sembrava quasi che fossero una sola persona, un solo corpo e una mente, uno spirito, un sogno. Lo amava immensamente, sì, ma quella sensazione di unicità era molto più che amore. Quando arrivò Natale, il loro primo Natale insieme, Laura capì che quello che provava era una sensazione di possesso, la sensazione di essere di nuovo una famiglia; perché Danny era suo marito e lei era sua moglie e un giorno dalla loro unione sarebbero nati dei bambini, dopo due o tre anni, secondo il Piano, e nel guscio familiare c’era una pace che non aveva trovato altrove.
Laura aveva pensato che lavorare e vivere in continua felicità, armonia e sicurezza, giorno dopo giorno, avrebbe reso pigra la sua mente, che l’ispirazione avrebbe sofferto di quell’eccessiva felicità, che avrebbe avuto bisogno di una vita più equilibrata, con alti e bassi, per continuare a essere creativa. Ma l’idea che un artista avesse bisogno di soffrire per produrre le sue opere migliori era un luogo comune. Più era felice e meglio scriveva.
Sei settimane prima del loro primo anniversario di matrimonio, Laura mise la parola fine a Jericho Nights e ne inviò una copia a Spencer Keene, l’agente letterario di New York che aveva risposto favorevolmente a una sua lettera. Due settimane più tardi Keene la chiamò per annunciarle che avrebbe proposto il libro a varie case editrici e che si aspettava di venderlo in breve tempo. Con una rapidità che stupì persino l’agente, vendette il libro alla Viking, la prima casa editrice a cui l’aveva sottoposto, per un modesto ma rispettabile anticipo di quindicimila dollari e il contratto venne definito venerdì 14 luglio 1978, due giorni prima del loro anniversario.
Il posto che aveva intravisto dalla strada, trecento metri più a monte, era una taverna ristorante celata sotto enormi pini gialli. Gli alberi si elevavano per più di sessanta metri, erano carichi di grandi pigne e avevano le cortecce spesse e piene di fessure. Alcuni rami erano ricurvi sotto il peso della neve delle precedenti bufere. L’edificio a un piano era fatto di tronchi d’albero. Era così nascosto fra gli alberi su tre lati che il tetto d’ardesia era ricoperto più dagli aghi dei pini che dalla neve. Le finestre erano appannate e la luce proveniente dall’interno veniva piacevolmente diffusa da quella pellicola semitrasparente che si era formata sul vetro.
Nel parcheggio di fronte si erano fermate due jeep, due autocarri e una Thunderbird. Tranquillizzato dal fatto che nessuno poteva vederlo dalle finestre della taverna, Stefan si diresse immediatamente verso una delle jeep e dopo essersi accertato che fosse aperta si sistemò al posto di guida e chiuse la portiera.
Estrasse la Walther PPK/S.380 dalla fondina legata alla spalla e la posò sul sedile di fianco.
I piedi gli dolevano dal freddo e avrebbe voluto fermarsi un attimo per togliere la neve che si era infiltrata negli stivali. Ma era arrivato troppo tardi, la sua tabella di marcia era saltata e non osò perdere neppure un minuto. Anche se gli facevano male i piedi, non erano ancora gelati e per il momento non c’era pericolo di un congelamento.
Le chiavi non erano nel quadro. Tirò indietro il sedile, si chinò e cercò a tastoni sotto il cruscotto. Individuò i fili dell’accensione e in un attimo mise in moto.
Stefan si sollevò proprio nel momento in cui il proprietario della jeep aprì la portiera. «Ehi, che diavolo stai facendo qui, amico?»
Il parcheggio spazzato dalla neve era ancora deserto. Erano soli.
Laura sarebbe morta fra venticinque minuti.
Il proprietario della jeep si avventò su di lui e Stefan si lasciò tirare. Afferrò la pistola che aveva posato sul sedile accanto e si abbandonò letteralmente alla presa dell’altro, cogliendo il momento adatto per farlo barcollare all’indietro sul selciato scivoloso. Caddero. Appena toccarono terra, Stefan gli fu sopra e gli puntò la pistola alla gola.
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