Era sulla branda della cella, sotto la coperta, completamente vestito. Si era addormentato per un minuto, forse cinque, non lo sapeva. Aveva avuto un incubo: era in casa di sua madre, aveva aperto un armadio e l’aveva trovato pieno di corpi macellati. Si era svegliato con il cuore in gola, con il fiato corto. Si era ripreso subito, aveva capito dov’era e si era tranquillizzato. Era giunto infine il momento.
Gli sembrava di ritornare se stesso, infine. La meticolosa, fredda precisione dei suoi pensieri sembrò riprendere il suo corso senza problemi. Immagini come quella dell’incubo — e molte altre molto più spaventose di tutta la sua vita — sembravano essere state ricacciate nel profondo. Poteva risalire nella torre, al sicuro, per seguire il suo piano.
La prima cosa era recuperare la capsula.
L’uomo chiamato Ben Fry guardò l’orologio di plastica che teneva agganciato alla branda. L’aveva usato per cronometrare le immagini sui monitor della cabina di controllo. Quarantotto celle, ognuna mostrata per dieci secondi. Un ciclo di otto minuti. In uno dei suoi passaggi verso il parlatorio, aveva visto la sua cella e aveva iniziato a contare. Aspettò il momento in cui era il turno della sua cella di apparire sul monitor, poi contò i dieci secondi e qualcuno in più, per sicurezza, e si girò verso la parete.
La coperta copriva le sue mani infilate dentro la cintura dei pantaloni. Le dita trovarono il punto delicato della cicatrice. Trattenne il fiato, concentrandosi sul muro bianco davanti a lui. Poi si pizzicò la carne fra pollice e indice e iniziò a premere.
Schiacciò con forza e vide accendersi nei suoi occhi dei lampi bianchi, un’esplosione di dolore bianco, e scintille che ricadevano come in un fuoco d’artificio. L’uomo chiamato Ben Fry continuò a guardare la parete, con le mascelle serrate, gli occhi strabuzzati. La sacca di pus che si era formata intorno alla capsula salì verso l’esterno, e la sua gamba avvertì con dolore il bordo tagliente dell’oggetto che si spostava. Le dita premettero più forte e la capsula salì in superficie assieme al pus. L’agonia nei suoi occhi divenne rossa, rossa con lampi bianchi. Persino l’uomo chiamato Ben Fry era stupefatto di quanto facesse male.
Improvvisamente, con un suono quasi ridicolo, la pelle si squarciò, così, come quando si schiaccia un foruncolo. Spostò la coperta per vedere e scorse il pus, giallo, che gli colava lungo la gamba, bagnando i pantaloni. Con un sordo grugnito affondò ancora di più le dita. Finalmente riuscì a toccare la capsula, man mano che il pus usciva. Non riusciva a credere che ce ne fosse tanto. Poi venne il sangue, acquoso, pallido. E in quel misto di umori rossi e gialli apparve la punta scura della capsula.
La prese con l’altra mano, fra il pollice e l’indice. Le lacrime gli scendevano dagli occhi mentre la recuperava.
La capsula era scivolosa e sporca. La pulì nel lenzuolo per riuscire ad afferrarla, poi la spezzò a metà. Era stata progettata per aprirsi senza difficoltà e ognuna delle due parti, una rossa e una azzurra, aveva un’estremità piatta e una a punta. Con la parte appuntita di una bucò quella piatta dell’altra e ripeté l’operazione sulla seconda.
Aveva circa sei minuti prima che la telecamera riprendesse nuovamente la sua cella. C’era tutto il tempo.
Ignorando il dolore, andò alla porta della cella e usò la capsula azzurra per prima. Ne depose il liquido in quattro punti, dove la porta scorreva e dove era collegata al meccanismo di apertura computerizzata. Lasciò in ogni punto un po’ del liquido viscoso e poi fece lo stesso con la capsula rossa. I fluidi si mischiarono.
L’uomo chiamato Ben Fry tornò dall’altra parte della cella e si accovacciò con la testa bassa e le mani dietro il collo. In quella posizione vedeva la macchia scura allargarsi lentamente sulla gamba dei pantaloni. Sentì una leggera agitazione pervaderlo in quel momento di attesa, ma non aveva paura. Aveva calcolato tutto, ogni passo. Il suo piano era perfetto, come sempre. Bisognava solo attuarlo.
Passò un secondo, poi un altro. Il liquido azzurro si mescolò con quello rosso e infine, con un sibilo leggero, un’esplosione silenziosa liberò la porta dalla chiusura automatizzata.
Non appena udì il rumore, l’uomo chiamato Ben Fry balzò verso la porta, afferrò la grata e spinse. La porta non si mosse. Per un istante l’uomo rimase come inebetito. Non doveva succedere, non era nel piano. Poi diede un’altra spinta e questa volta la porta si scostò come doveva, solo un poco, il necessario.
L’uomo chiamato Ben Fry scivolò nell’apertura e si incamminò nel corridoio.
Era fuori.
Weiss era al telefono con Ketchum, in quel momento. Il basso mormorio dell’ispettore si era trasformato in una sorta di furioso ruggito.
«Che cosa diavolo vuoi che faccia, Weiss? Che cosa pensi che io possa fare?»
«Cerca almeno di far scattare un allarme generale nella prigione.»
«Ci ho già parlato. Non lo fanno perché il carcere è sempre in stato di allarme. Hai visto il posto. Quale altra precauzione devono prendere?»
«Non hanno una specie di allarme in caso di fuga?»
«Sì, certo. Porte d’acciaio che si chiudono automaticamente, allarmi sonori, tutte quelle stronzate. Ma devono mettere tutto in moto perché il mio amico investigatore dice che sospetta qualcosa?»
Weiss sospirò; aveva gli occhi ancora fissi sulla ragazza del video, che ammiccava dallo schermo del computer. «Almeno potrebbero sorvegliare a vista Ben Fry», tentò infine.
«Ben Fry è già sorvegliato a vista», rispose Ketchum. «Come ogni detenuto. È una prigione di massima sicurezza, cazzo.»
La testa di Weiss premeva pesantemente sulla cornetta del telefono. Non sentendolo rispondere, Ketchum continuò in tono più gentile, per quanto potesse.
«Senti, hanno problemi di personale come tutti. Che cosa dovrei dir loro? Forse con un po’ più di tempo potrei convincerli a tenerlo d’occhio ventiquattr’ore su ventiquattro. Non so. Ma adesso… Non sai neanche che cosa dovrebbe accadere.»
Weiss annuì, senza staccare gli occhi da Julie, senza rispondere con la voce. Era vero, non lo sapeva. Sapeva solo che aveva perso il contatto con Bishop e che tutto sarebbe accaduto presto.
Sentì Ketchum sbuffare all’altro capo. «Il problema è che il direttore ti crede pazzo. Ecco che cosa pensa…»
Ma Weiss lo ascoltava appena. Guardava Julie sullo schermo, con il suo sguardo mogio. Aveva appoggiato il gomito al bracciolo, la testa alla cornetta. La stretta al cuore che la vista di lei gli dava era diventata una dolìa permanente, che esprimeva impotenza e frustrazione. Era bloccato lì, in quella città, al telefono, mentre a circa cinquecento chilometri di distanza l’uomo che dava la caccia alla ragazza stava per scoprire dove si trovava, e Weiss non riusciva a farlo credere a nessuno…
Ketchum stava continuando a blaterare, come un sussurro in lontananza. Weiss non smetteva di guardare il video e la sua mente vagava nel sogno di incontrarla, di perdersi in quegli occhi misteriosi. Improvvisamente sentì il motivo sonoro che annunciava l’arrivo di un’e-mail.
Raddrizzò la schiena e sgranò gli occhi, sorpreso.
«… perché tutto il sistema è pensato per non far succedere cose simili…» continuava Ketchum dall’altra parte.
«Fermati», disse Weiss, con rinnovata energia. Cliccò sull’icona dei messaggi e l’immagine di Julie Wyant scomparve. Lesse.
«Allora», sentì Ketchum chiedere. «Novità?»
«C’è qualcosa da Bishop.»
«Bishop? Che cosa vuole?»
Weiss, ha funzionato. Wannamaker è fuori, io sono in gioco. Stasera alle sei sarò in volo verso una destinazione ignota. Quando sarò là, mi daranno le istruzioni sul mio incarico e ti farò sapere. Se abbiamo fortuna, possiamo portare a termine la missione senza comprometterci… c150kmnoah-64d
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