«Calma», l’interruppe Nikki, cullandole la testa in grembo. «Si calmi. Ci ha provato. Ora si rilassi e riprenda fiato. Sono felice che sia riuscita a tornare.»
Ellen riuscì a mettersi in piedi, espellendo ancora acqua del fiume con violenti colpi di tosse, solo dopo parecchi minuti.
«Mio Dio, è stato terribile», esclamò. «Le pietre mi sono crollate addosso. Non riuscivo a liberare la gamba.»
Nikki si tirò in piedi aiutandosi con la ringhiera del ponte. Le due donne, inzuppate e tremanti, si abbracciarono, poi Ellen si staccò.
«Dove va?» domandò Nikki.
«Su quella pila di sassi», rispose Ellen, indicando ciò che rimaneva dell’entrata che avevano usato Nikki e gli altri. «Mandi qui Sara Jane, mi aiuterà a smuovere parte di questa roba.»
Nikki stava per protestare, poi scrollò le spalle e annuì.
Aspettare senza fare nulla non era diverso dall’aspettare dandosi da fare.
La prima cosa che Matt notò, riprendendo conoscenza, fu l’odore di olio di motore. La seconda, che era vivo e gelato. Si trovava in un grande capannone ed era disteso su un letto di pezze sporche, con ancora indosso i suoi abiti zuppi d’acqua. Le pareti erano in legno trattato con creosoto. La lampadina sospesa sopra di lui era spenta, ma una sottile, grigia luce filtrava da una finestra schermata di trentacinque centimetri per lato, vicino al soffitto. Impilati non molto distanti da lui vi erano dei secchi in plastica chiusi contenenti qualche sostanza chimica e un grande sacco di carta senza marchio pieno forse di semi o fertilizzante. In un angolo del grezzo pavimento in legno vi erano degli attrezzi da giardinaggio, sulla parete erano appesi parecchi tagliaerba a benzina e sotto di loro un grosso motore parzialmente a pezzi.
Solo quando cercò di muoversi, si rese conto che il polso sinistro era ammanettato a un tubo a U che sembrava fosse stato costruito nel muro proprio a quello scopo. Si guardò attorno, cercando di capire chi fossero quelli che lo tenevano prigioniero. Lo stomaco, reagendo agli odori e al capogiro, gli lanciava getti di acre bile in gola. L’orologio era sparito, come pure la pistola che aveva in tasca. Aveva i dorsi delle mani escoriati a vivo e ricoperti di sangue coagulato. Dall’esterno non arrivava alcun rumore di traffico, ma nel giro di un quarto d’ora aveva sentito due volte una motocicletta partire rombando. Due moto diverse, pensò, entrambe delle Harley. Pezzetto dopo doloroso pezzetto, i ricordi del suo devastante viaggio nel fiume sotterraneo si cristallizzarono.
«Aiuto!» gridò. «Qualcuno mi aiuti!»
Attese una risposta, quindi gridò di nuovo. Con esitazione, la porta di fronte a lui si aprì e una donna snella sulla ventina sbirciò dentro e si pose un dito sulle labbra. Aveva capelli rossi malamente pettinati, spesso ombretto nero e piercing nel naso, nelle sopracciglia e nel labbro inferiore. I pantaloni in pelle nera erano sfilacciati e polverosi, come la T-shirt nera e il gilet in pelle.
«Silenzio!» mormorò in tono pressante. «Si prenderanno cura di te quando saranno pronti.»
«Ma io devo andare…»
La donna si era già allontanata e aveva chiuso la porta alle sue spalle. Matt fece passare alcuni minuti, quindi riprese a urlare. Questa volta, quando riapparve, la donna teneva un bambino sul fianco, un ragazzino di due anni, sporco e gracile, con un colorito giallastro, una brutta tosse e del muco verdastro che gli colava da entrambe le narici. Lei gettò a Matt una coperta militare marrone sbrindellata.
«Senta, le ho detto di stare zitto», borbottò la donna, sempre sussurrando con urgenza. «Non è affatto improbabile che la uccidano. Urlare in quel modo e disturbare i bambini potrebbe far svanire anche quella piccola possibilità.»
La donna stava per andarsene, ma esitò quando lui parlò.
«Aspetti, la prego, sono un medico», disse rapidamente. «Mi chiamo Matt Rutledge. Sono il dottor Matt Rutledge di Belinda. Non so come sono arrivato qui né dove sono, ma devo andare via e cercare aiuto. I miei amici sono intrappolati nel crollo di una miniera e moriranno.»
«Lei non è un dottore», ribatté la donna. «Hanno detto che aveva una pistola. Di solito i dottori non ne portano.»
«Questo lo posso spiegare. Senta, il suo ragazzino ha una brutta sinusite, e forse anche una laringite. Scommetto che non mangia e non dorme bene. Dovrebbe farlo visitare da un medico, e alla svelta. Ha bisogno di antibiotici.»
«Noi non andiamo da nessun medico.»
«Posso curarlo io. Posso farle avere le medicine di cui ha bisogno. Come si chiama lei?»
La donna strinse gli occhi.
«Becky», rispose infine. «Questo qui è Samuel. E non lo chiami Sam, è una cosa che fa arrabbiare suo padre.»
«Io sono un dottore molto bravo, Becky, e posso guarire Samuel. Mi lasci andare a cercare aiuto per i miei amici. Poi tornerò per prendermi cura di lui.»
L’indecisione guizzò negli occhi di Becky, ma poi svanì rapidamente.
«Se lo facessi, non troverebbero più molti pezzi di me», disse. «Lei ora se ne stia lì in silenzio. Se non è un dottore, Bass la ucciderà più velocemente di uno schiocco di dita. E se lo è, è probabile che la uccida lo stesso. Ora chiuda il becco!»
«Ma…»
Questa volta la donna chiuse la porta sbattendola.
«Becky, per favore», gridò Matt.
Nessuno rispose. Fissò la finestrella, cercando di capire che ora del giorno fosse. Per quanto tempo era rimasto svenuto? Gli indumenti bagnati e il sangue appena rappreso indicavano che non lo era stato a lungo, ma non poteva esserne certo. Le manette erano da dipartimento di polizia e applicate troppo strette per potersi liberare. Poggiò i piedi contro la parete, afferrò con entrambe le mani il tubo di rame e cercò di strapparlo dal muro. L’inutile sforzo gli inviò una fucilata che gli esplose nella testa. Frustrato, ricadde sugli stracci unti e prese a calci il muro finché rimase senza forze. Doveva esserci un modo per uscire. Aspettare l’arrivo di Bass o di chiunque dovesse ucciderlo non gli pareva una buona idea.
«Becky», gridò. «Samuel è malato, molto malato e lei lo sa. Non guarirà senza medicine. Quella roba che gli cola dal naso è una cosa seria. Io posso aiutarlo. Potrebbe ammalarsi gravemente. Per favore, mi ascolti. Moriranno delle persone se non riesco a trovare soccorsi. Non mi lasci qui così.»
«Bass, no!» sentì Becky urlare.
Un attimo dopo la porta del capannone si spalancò. L’uomo rimase sull’uscio, riempiendo lo spazio. Era alto un metro e novantacinque, con spalle che toccavano quasi entrambi gli stipiti; braccia grosse come tronchi piene di tatuaggi e un enorme pancione. I folti capelli biondo rame lunghi fino alle spalle e la barba non avevano visto forbici da mesi, se non da anni, e il suo panciotto, una volta forse il rivestimento di una intera mucca, era ornato di chiodi cromati. Gli occhi stretti e selvaggi non contenevano una sola goccia di cordialità.
«Chi diavolo sei?» domandò, facendo un passo in avanti. «E per chi lavori?»
Dietro di lui, Matt vide almeno un altro motociclista e Becky, con Samuel sempre appollaiato sul suo fianco. Si tirò in piedi.
«Sono un medico», rispose, certo che avrebbe fatto meglio a esporre i fatti alla svelta. «I miei amici e io siamo rimasti intrappolati dall’esplosione di una miniera. Io sono uscito nuotando nel fiume sotterraneo per cercare aiuto.»
«Cazzate.»
«No, la prego, è vero. Vivo a Belinda. Ho bisogno di raggiungere la fattoria dei fratelli Slocumb. Li conosce? Possono garantire per me.»
«Non li conosco. Non so niente, a parte il fatto che tu eri dove non dovevi essere con una pistola in tasca. Ora, possiamo intenderci con le buone o con le cattive. Fai parte dell’Antidroga?»
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