Era la fine.
La corrente ora era aumentata e la turbolenza un problema in più. Freneticamente, artigliò l’acqua agitata, cercando di stabilizzare il corpo. I polmoni erano di nuovo in fiamme e ogni battito cardiaco un proiettile che gli scoppiava nel cranio. Ebbe l’impressione che le pareti della galleria si unissero, tirandolo mentre precipitava tra loro.
Non respirare!… Resisti!…
Nel momento in cui dovette inalare, la sua faccia emerse dall’acqua. Tra colpi di tosse e conati di vomito, lottò per adattarsi alla corrente che si era fatta ancora più forte, tentando di mantenersi eretto mentre inalava un po’ di quell’aria densa che proveniva da quella che pensò fosse una piccola grotta o addirittura una caverna. La debolezza e la tosse gli resero impossibile riprendere il controllo.
Il fiume si era allargato ed era diventato più basso. Profondo non più di novanta centimetri, scorreva agitato a grande velocità attraverso uno spazio nero. Matt cercò di raggiungere la riva destra, ma l’acqua ribolliva attorno a lui, tirandolo sotto, per poi capovolgerlo come una bambola di pezza. Per due volte sbatté contro le rocce che spuntavano dal fondo. Nel corso degli anni, aveva percorso su gommoni da rafting alcuni fiumi del West Virginia, attraversando decine di rapide a forza di remi o nuotando. L’obiettivo era sempre stato quello di evitare i massi e la tecnica di nuoto richiedeva di avanzare con i piedi in avanti, in una posizione mezzo seduta, usando le braccia come remi. Urtando continuamente le rocce, cercò di assumere quella posizione, ma nel buio, senza alcun indizio visivo e senza nulla che lo avvertisse che si stava avvicinando a un masso, era molto difficile.
Sputacchiando acqua inspirata, scivolò impotente lungo una ripida scarpata. Il fiume ribollente e vorticoso sembrava scorresse sempre più in verticale e ora sentì un rombo echeggiare dalla roccia, il rombo dell’acqua che precipitava. Continuò a ruzzolare, sbattendo contro il fondo roccioso e i massi. Le braccia, che usava per riparare testa e faccia, stavano subendo uno spaventoso bombardamento. Non aveva più fiato, stava perdendo i sensi e i polmoni si stavano riempiendo d’acqua. All’improvviso, ciò che era stato un pendio, divenne un salto. Senza peso e lanciato in aria, volò oltre il precipizio. Atterrò malamente e con grande forza nella bassa pozza in fondo. Scagliato in avanti, colpì con la fronte una roccia frastagliata. Il dolore gli esplose nel cervello.
Un attimo dopo, il nulla.
Per quindici minuti, Nikki ed Ellen rimasero in silenzio vicino al ponte, una lanterna puntata sull’apertura dove il fiume abbandonava la grotta.
«Ho paura per lui», disse infine Nikki.
«La capisco. Sta facendo una cosa veramente coraggiosa.»
«Soffre di claustrofobia. Me lo ha detto lui stesso.»
«Il fiume deve uscire da qualche parte. Ce la farà.»
«Lei non capisce!»
Ellen le cinse le spalle.
«Mi scusi. Stavo solo cercando di essere ottimista. So quanto questo debba essere terribile per lei. E lo è anche per me.»
«Mi scusi.»
«Nikki, ciò che Matt ha deciso di fare è giusto. Entrambe sappiamo che, per come stanno le cose, qui non abbiamo molte possibilità. Aspetterò un paio d’ore, poi, se non succede niente e non riusciamo a escogitare nulla di meglio, cercherò di uscire di qui, forse seguendo il fiume a monte. È pronta per tornare a visitare gli altri?»
Nikki scrutò la stretta fessura tra la superficie del fiume e il soffitto della galleria. La luce della lanterna fece scintillare l’acqua, poi svanì nell’oscurità. Riluttante, prese la lanterna e pose un braccio sulle spalle di Ellen. La caviglia le doleva al minimo movimento, ma non le importava. Aveva sempre sopportato bene il dolore.
«Lei è una brava persona», disse, saltellando verso Colin Morrissey.
«Come lei», replicò Ellen, il braccio attorno alla vita di Nikki. «Come lei.»
La ragazza, i capelli biondicci appiccicati e sporchi, era seduta accanto a Morrissey e gli accarezzava la mano. Nikki rabbrividì nel vedere i fibromi che deformavano quello che una volta era stato un bel volto. Morrissey, il cui viso era ancora più sfigurato di quello della ragazza, era ancora privo di sensi e respirava a fatica. Lo stridore, il segnale che almeno un po’ di aria passava, era ridotto a un sibilo appena udibile.
«È morto», disse la ragazza con voce distante e cantilenante, priva di emozione.
«No. No, non è morto», ribatté Nikki, inginocchiandosi vicino a lui. «Mi chiamo Nikki. Sono un medico. Questa è Ellen. Insegna in una scuola. Tu come tu chiami?»
«Sara Jane Tinsley. Lo aiuterà?»
Nessuna paura, nessuna ansia, nessuna domanda su ciò che le era successo o sulla loro attuale situazione. Nikki decise di non toccare l’argomento, a meno che la ragazza non ponesse domande dirette. Era evidente che in lei stavano agendo choc e rifiuto della realtà, oltre all’effetto residuo della droga che le avevano dato, quale che fosse, e forse anche del morbo spongiforme che le stava distruggendo il cervello.
Tanto meglio, pensò Nikki. Meno la ragazza era consapevole della loro situazione, meglio era.
«Ci proverò, Sara Jane», rispose.
«Io credo che sia morto, morto, morto.»
«No, vedi, sta fes…»
Nikki si bloccò a metà frase. Il sibilo di Morrissey era scomparso. La gola contusa e gonfia si era infine chiusa del tutto. Controllò il polso, che era più debole di prima, ma ancora presente. Da quel momento fino all’irreparabile danno cerebrale, aveva tre o quattro minuti per scavalcare l’ostruzione e fornire di ossigeno il sangue circolante. Combattuta, esitò, la sua mente sembrava incapace di scordare la probabilità che Morrissey avesse già una irreparabile, progressiva malattia cerebrale.
Rapidamente, tuttavia, quel pensiero svanì di fronte al ricordo di Kathy Wilson e Hal Sawyer, di Joe Keller e dei minatori morti e degli altri casi di sindrome di Belinda di cui Grimes e la sua banda si erano di certo già occupati. Di colpo, tutta la sua ira, tutta la sua frustrazione e la sua paura si concentrarono su quel giovane, che non aveva fatto altro che fare ciò che il suo medico e sua madre gli avevano consigliato un decennio prima.
Colin Morrissey non sarebbe morto, lei l’avrebbe impedito!
Silenziosamente, Nikki imprecò contro se stessa per non essersi preparata in anticipo per una tracheotomia d’emergenza. Era stata troppo presa dalla sua situazione e dal dolore per pensare con chiarezza e forse era stata influenzata anche dalla certezza che quella malattia incurabile che pensava stesse distruggendo il cervello dell’uomo fosse senza speranza. Ricordò a se stessa che il senno di poi era sempre inutile. Quello che era successo, era successo. Quello che doveva affrontare ora era questo momento.
«Ellen, devo assolutamente fargli entrare un po’ d’aria. Avrò bisogno del suo aiuto.»
«Mi dica solo cosa devo fare.»
Nikki inclinò all’indietro la testa del giovane, raddrizzandogli la trachea. Morrissey reagì con un unico, sorprendentemente efficace respiro, riguadagnando i preziosi secondi che aveva perso dall’ultimo. Nella mente di Nikki, l’orologio di quattro minuti venne riazzerato.
«La prego di tenergli la testa in questa posizione», disse. «Ha per caso una penna o qualcosa di vuoto?»
«Temo di no.»
«Sara Jane, ora farò alcune cose per aiutare quest’uomo, se posso. Potrà sgorgargli sangue dal collo.»
«Ho già visto sangue», ribatté la ragazza, guardandosi in giro come se fosse la prima volta.
Non c’era più tempo per le spiegazioni. La pelle sopra la clavicola di Collin Morrissey si stava traendo all’indentro mentre i polmoni si sforzavano inutilmente di inspirare aria. Nikki agguantò la prima cassetta di pronto soccorso e vi frugò dentro freneticamente. Trovò lo scalpello usa e getta che aveva usato per Carabetta e un paio di forbici per bende che avrebbe potuto usare come divaricatore. Ora aveva bisogno di qualcosa di rotondo, vuoto e robusto, abbastanza largo da permettere il passaggio di sufficiente aria, ma non tanto grande da lacerare la trachea. Un ago dal foro grosso le avrebbe fatto guadagnare un po’ più di tempo, l’ideale sarebbe stato il cappuccio di una penna. Conscia del passare dei secondi, lasciò cadere tutta la cassetta sul pavimento. Una siringa da due cc, ancora nel suo involucro sterile, era sepolta sotto alcune bende.
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