Michael Palmer - Sindrome atipica

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Sindrome atipica: краткое содержание, описание и аннотация

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Il dottor Rutledge ha la certezza che ci sia qualcosa di sospetto nelle morti dei suoi pazienti. Troppe banali influenze degenerate in incomprensibili complicanze non hanno lasciato scampo ai malati. L’uomo nutre un sospetto: che nell’evoluzione fatale delle malattie sia coinvolto il giacimento di carbone, la cui aria nera copre il cielo della sua città, nel West Virginia. Ma presto il dottore capisce che le sue indagini lo stanno portando a scoprire segreti molto più pericolosi di quanto potesse immaginare.

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«Farò quel che posso.»

«Fred, ora la sposteremo laggiù, dove avremo più spazio per assisterla.»

Muoverlo non fu un’impresa semplice. Alla fine ci riuscirono trascinandolo poco alla volta per i polsi, oltre la ragazza che stava muovendo le estremità, nella zona dove giacevano la guardia di sicurezza e l’uomo con la sindrome di Belinda. Esausti per lo sforzo e per dover respirare attraverso la mascherina chirurgica, rimasero fermi per almeno un minuto, le mani sulle ginocchia, respirando a bocca aperta.

«Basta gelati per Fred», disse ansimando Matt.

In quell’istante, con un urlo spettrale, una figura si lanciò dall’oscurità, dall’alto di un ammasso di detriti, su Nikki, facendola cadere all’indietro, distruggendo una delle lanterne.

Nikki gridò dal dolore mentre l’aggressore, una donna robusta, le saltava addosso, le mani alla gola. Grazie alla luce restante, Matt riuscì a distinguere il fitto grappolo di neurofibromi che coprivano la faccia della donna. Si tuffò su di lei, la colpì alla spalla con la sua spalla e la placcò sul pavimento. Grugnendo e sputando, la donna cercò di colpirgli il viso e le braccia, riuscendo ad assestare alcuni pugni efficaci. Matt la colpì al volto, prima con la mano aperta, poi con il pugno. Era la prima volta che colpiva qualcuno in quel modo in vita sua. Sbalordita, la donna crollò all’indietro. Matt le pose un ginocchio sulla gola, le strappò la camicia in cotone e usò una delle maniche per legarle le mani, l’altra per le caviglie. Pre’s’e poi del nastro adesivo dalla cassetta del pronto soccorso e la immobilizzò ancor più efficacemente.

«Tutto bene?» chiese, girandosi verso Nikki.

«La caviglia sinistra», gemette lei. «Ha ceduto quando mi ha colpita.»

«Ti fa male da qualche altra parte?»

«Non troppo.»

Matt s’inginocchiò ed esaminò la lesione. La parte esterna della caviglia iniziava già a gonfiarsi e il malleolo laterale, la sporgenza ossea, presentava una abnorme sensibilità al dolore. Forse l’estremità della fibula non era rotta, ma i legamenti erano di certo strappati. In ogni caso, non poteva più muoversi. Nikki gemette debolmente mentre Matt le bendava la caviglia. Prese poi un sacchetto di ghiaccio chimico monouso e lo fissò alla giuntura con una benda elastica che coprì poi con un’altra.

Con grande sforzo, Nikki si girò sulle mani e le ginocchia.

«Diamoci da fare su Fred», disse. «Non so quanto a lungo resterà vivo.»

«Puoi farlo?»

«Posso provarci», rispose Nikki, trasalendo.

«Vado a prendere quel nastro da idraulico e mi dedico agli altri due mentre tu visiti Fred. Non vorrei si ripetesse una scena alla Tarzana, quando riprenderanno conoscenza. Mio Dio, in che pasticcio ci troviamo.»

Muovendosi, lentamente e dolorosamente carponi, Nikki depose due lanterne sul mucchio di pietre, prese due paia di guanti in gomma da una scatola e si mise al lavoro. Usando una forbice da benda e le mani, tagliò e strappò gli indumenti di Carabetta. Se ancora non era sotto choc, mancava poco, pallido, sporco, coperto di sangue e di sudore, con un battito tremendamente rapido e debole. Nel grasso corpo e nelle grosse gambe aveva tre o quattro lacerazioni che continuavano a sanguinare, ma il vero problema era la profonda lacerazione di circa otto centimetri all’inguine, da dove sgorgava sangue scuro.

Ansante, Matt tornò da lei.

«Arteria?» domandò.

«Vena, credo. Tu sei più forte. Che ne dici di fare un po’ di compressione?»

Matt pose un tampone di garza sulla ferita e vi si appoggiò contro con tutte le sue forze, ma lo spesso strato di grasso color zafferano di Carabetta impediva che potesse applicare una forza sufficiente. Il sangue continuò a filtrare da sotto la garza.

Nel frattempo, il respiro stridente di Colin Morrissey stava peggiorando.

«Abbiamo bisogno di più mani», ripeté Matt mentre Nikki strisciava verso l’uomo per esaminarlo.

«Abbiamo quello che abbiamo», ribatté senza girarsi. «Matt, anche questo è nei guai. Non credo che resisterà a lungo senza una tracheotomia.»

«E io non riesco a fare sufficiente pressione per fermare l’emorragia di Fred. Secondo me, si è lacerata la vena safena.»

«Che possiamo fare?»

«Infilare una stretta garza sotto la safena e legarla.»

«Hai mai fatto una cosa simile?»

«Se conti il cadavere del gatto durante la lezione di anatomia comparativa, sì. E tu?»

«Mettendo insieme l’anno di chirurgia e il mio lavoro di squartatrice di cadaveri, l’anatomia la conosco molto bene.»

«Questo sistema le cose. Io ti faccio da assistente e tu tenti l’intervento.»

«E Colin?»

«Per ora sta respirando. Se non blocchiamo questa emorragia, Fred è spacciato.»

«D’accordo, d’accordo.»

Mentre Matt teneva premuta la ferita, Nikki aprì la cassetta del pronto soccorso e ne estrasse un rotolo di garza larga due centimetri e mezzo e un paio di pinze, il tipo dalla punta aguzza usato per togliere schegge.

«Nessun gancio?» domandò Matt, riferendosi alle cinghie emostatiche con chiusura automatica.

«Non ne vedo.»

«Uno scalpello?»

«No.»

«Novocaina? Xylocaina?»

«Sogna pure. Aspetta, c’è uno scalpello usa e getta.»

«Ah, qualcosa di cui essere grati. Fred, può sentirmi?»

«Mi… aiuti.»

Matt abbandonò l’idea di dargli qualche spiegazione medica. Si chinò sull’orecchio dell’uomo.

«Fred, questo le farà molto male», disse. «Nik, come va la caviglia?»

«Insensibile. Se non faccio movimenti rapidi, sopportabile. Non credo, tuttavia, di potermici appoggiare sopra.»

«Io posso continuare a comprimere e a tenere la lanterna, tu però dovrai fare anche da infermiera di sala.»

«Ho paura», esclamò lei improvvisamente.

«Lo so», rispose Matt. «Non mi fiderei di te se tu non avessi paura. Fai del tuo meglio e fallo alla svelta.»

«Credo di dover aprire di più la zona.»

«Fallo.»

Nikki scrollò le spalle e fece una profonda incisione lunga dieci centimetri ad angolo retto col centro della lacerazione. Il sangue sgorgò dai bordi della pelle e dal grasso di un giallo vivace sottostante.

«Oh, mio Dio!» gridò Carabetta. «Oh, cazzo!»

All’urlo dell’uomo, Nikki si tirò indietro, ma Matt scosse la testa.

«Puoi farlo», disse con decisione.

«D’accordo», rispose lei, «comprimi sotto l’incisione, mettici un sacco di forza. Guarda, è la vena safena, quasi completamente recisa. È un miracolo che sia ancora vivo.»

«Sei tu il miracolo. Legala, in alto e in basso, poi passiamo a quello che non riesce a respirare.»

Dietro di loro sentirono peggiorare ancora di più la respirazione faticosa di Colin.

«Se quell’uomo e la ragazza sono pazzi come la Tarzana, avremo un bel daffare quando riprenderanno conoscenza», osservò Nikki.

«Quest’uomo, poi quell’uomo, poi la ragazza», sottolineò Matt.

«Giusto.»

Nikki usò le dita e la punta spuntata della pinza per allargare il tessuto attorno e sotto il vaso lacerato. Spinse poi le estremità di due garze lunghe trenta centimetri nel canale che aveva creato. A ogni mossa, Fred gridò, ma la sua reazione al dolore si faceva sempre più debole. Un’alta percentuale della sua massa sanguigna era nei vestiti e sul pavimento impolverato. A meno che l’emorragia non venisse bloccata, entro uno o due minuti, forse qualcuno di più, o forse di meno, avrebbe perso per sempre coscienza.

«Ti stai comportando benissimo», la incoraggiò Matt. «Annoda i legacci in basso, e io sposterò la compressione per fermare il riflusso. Per qualcuno che non ha toccato da anni un paziente vivo, sei decisamente brava.»

«Forza, bambina», mormorò Nikki alla vena, mentre sistemava il secondo legaccio in garza, «non lacerarti proprio ora.»

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