«Bene», ordinò Matt, «facciamo alcune foto e prendiamo alcuni campioni.»
«Rutledge», esclamò Carabetta, indicando oltre i bidoni, «che c’è laggiù?»
Matt non ebbe il tempo di rispondere. Con un rombo assordante, una luce brillante e una forza mai vista prima di allora, le due entrate della caverna esplosero simultaneamente. Immediatamente, tutto lo spazio si riempì di fumo acre e di polvere soffocante. Massi grossi come automobili e pietre di ogni genere volarono in giro. Scagliato di lato, Matt sbatté malamente contro la parete. Crollò a terra mentre la polvere gli riempiva i polmoni. Su di lui piovvero sassi. Un masso grosso come una palla da pallacanestro gli cadde sulla schiena. Altri pezzi gli seppellirono le gambe e gli colpirono le braccia con tanta forza da frantumare ossa.
In pochi istanti, le esplosione finirono. La caverna completamente buia si riempì di sedimento soffocante e dell’odore delle sostanze chimiche che uscivano dai bidoni. Matt rimase a terra, la faccia mezzo sepolta nel pietrisco. Riusciva a inspirare un po’ d’aria solo premendo la bocca e il naso contro la camicia. Le orecchie gli ronzavano tremendamente e sentì che perdeva sangue dal naso. Poi, nell’oscurità, pensò di sentire un lamento.
«Nikki?» gridò, ma le corde vocali coperte di terra riuscirono a emettere appena un gracidio.
Tossì, sputò, quindi tossì di nuovo, finché non gli parve di avere eliminato un po’ di terra dalla gola. Notò anche che il dolore alla schiena era sì forte, ma non l’aveva reso inabile. Probabilmente era solo coperto di lividi. Si fregò il naso con la mano. Non era rotto, ma stava decisamente sanguinando. Quanto, difficile dirlo. Rapidamente si esaminò le braccia, che gli parvero intatte, le gambe, che erano completamente sepolte sotto molti chili di pietre.
«Nikki?» gridò di nuovo.
«Matt?»
Pensò di avere sentito la sua voce, debole e tesa, da qualche parte alla sua sinistra, ma non ne era certo. I timpani lesi smorzavano il suono, ma la mancanza di un intenso dolore lo indusse a credere che, benché le membrane e gli ossicini fossero gonfi e contusi, i timpani non erano stati lacerati. Doveva essere stata la voce di Nikki.
Si tirò la camicia sulla bocca e sul naso per facilitare la respirazione. Con un grande sforzo, riuscì a girarsi sul fianco quel tanto da smuovere le pietre dalle gambe.
«Nikki?» riprovò.
Questa volta non vi fu risposta.
Aveva il dorso delle mani escoriato e si sentiva tutto ammaccato, ma, pietra dopo pietra, riuscì a liberare le gambe. Sembrava logico che le persone che avevano fatto esplodere la caverna avessero fatto affidamento sul crollo del soffitto per sigillare tutta la faccenda in un attimo. Chiaramente, dato che non era schiacciato sotto qualche decina di tonnellate di pietre, ciò non era successo. Liberò le gambe e le fletté. Un po’ di male, ma non quel dolore che avrebbe indicato ossa rotte. Considerato quello che era appena successo, era piuttosto integro.
«Nikki?… Hal?… C’è qualcuno?»
Il suono della sua voce non riuscì quasi a riecheggiare. Era impossibile dire quanto della caverna e quanta aria fossero rimasti. Rotolò sulle mani e le ginocchia e strisciò sopra le pietre acuminate, verso il punto da dove aveva sentito arrivare la voce di Nikki. Si era spostato di un metro quando urtò un corpo. Era una donna, distesa a faccia in giù, coperta di polvere e sassi. Aveva capelli molto più lunghi di quelli di Nikki e indossava jeans e una T-shirt su un corpo molto magro, che non poteva pesare più di una cinquantina di chili. Una ragazza, pensò, non una donna. Le controllò il battito alla carotide e lo trovò subito. In quel momento, la ragazza trasse un respiro.
«Che diavolo…» mormorò Matt. «Mi senti?» chiese parlando nell’orecchio. Nessuna risposta.
Delicatamente, attento a tenere bloccato il collo, la rigirò. Allungando la mano nella totale oscurità, le spostò i capelli e un po’ di polvere dal viso.
«Oh, mio Dio», gemette nel toccare i duri neurofibromi sparsi sul viso e sul cuoio capelluto. «Oh, mio Dio, no.»
Nella grotta il buio era totale, opprimente e, per Matt, anche claustrofobico. Le esalazioni erano pungenti, anche se non caustiche come quelle del cloro; non ancora, almeno. Rimase seduto per un po’, calmandosi, respirando attraverso la camicia, la ragazza svenuta accanto a lui. Era evidente che Armand Stevenson e i suoi complici avevano deciso di seppellire la prova umana delle loro infrazioni assieme ai loro accusatori. Quante altre persone come la ragazza si trovavano nella caverna? si chiese Matt.
Le orecchie gli ronzavano ancora in modo sgradevole, ma il naso gli pareva avesse smesso di sanguinare. Ogni pochi secondi un altro pezzo di roccia cadeva da qualche parte nella caverna. Il soffitto non era crollato, ma di certo non era molto stabile. Matt rimase immobile ad ascoltare il tamburellamento delle pietre che cadevano, incapace di scrollarsi di dosso l’immagine del crollo ritardato delle torri gemelle del World Trade Center. Alla fine riuscì a orientarsi concentrandosi sullo sciabordio del fiume che scorreva dietro la pila di bidoni di sostanze chimiche. Il continuo rumore dell’acqua che riecheggiava nell’oscurità ebbe su di lui un effetto calmante.
«Nikki?» gridò di nuovo. «Hal?» Da qualche parte alla sua destra, udì un uomo lamentarsi: «Fred?»
Tolse dell’altra polvere e schegge di pietra dal volto e dai capelli della ragazza. Il suo viso stretto pareva integro, anche se era, senza alcun dubbio, terribilmente sfigurata. Povera bambina. Clavicole, torace, braccia, mani, addome, bacino, gambe. Per quel poco che poteva capire, non aveva subito gravi ferite.
«Nikki?» chiamò di nuovo. «C’è nessuno?»
Per alcuni secondi udì soltanto il rumore del fiume, poi: «Matt?… Matt, sono io».
Stavolta, quella risposta non l’aveva di certo immaginata. La voce di Nikki, fioca ma calma, veniva dalla sua sinistra, a una certa distanza.
«Nikki, sono Matt, sei ferita?»
«Io… ti sento, ma non riesco a capire le tue parole. Le mie orecchie…»
«Lo so», la interruppe Matt, parlando più lentamente, più forte e scandendo le parole, «anche le mie. Ti ho chiesto se sei ferita.»
«Non credo in modo grave. Le orecchie sono in crisi. Non smettono di fischiare. Sono stata anche colpita al capo, non credo di essere svenuta, ma mi gira la testa.»
Una seconda commozione cerebrale, pensò Matt. Quel termine veniva usato con indifferenza, soprattutto al pronto soccorso, dove le ferite alla testa non erano considerate gravi, a meno che fossero seguite da perdita di coscienza, che i raggi X avessero mostrato una frattura del cranio o che un esame tomografico computerizzato avesse rilevato una emorragia o una contusione cerebrale. Lui però aveva visto troppe vite rovinate e famiglie distrutte da sindromi postcommotive, a volte dopo un trauma leggero o una caduta di poca importanza o un tamponamento. Si tirò in piedi. La schiena e le gambe pulsavano e i dorsi delle mani bruciavano, ma nel complesso il malessere era tollerabile, specialmente ora che sapeva che Nikki era sopravvissuta.
«Nikki, puoi alzarti?»
«Credo di sì.»
«Camminare?»
«Ci provo… Sì, sì, ci riesco.»
«Aspetta!» gridò Matt. «Non muoverti! Hai idea di dove sia la tua torcia elettrica?»
«Scusa?»
«La tua torcia elettrica.»
«Io… io l’avevo in mano quando c’è stata l’esplosione. Ci sono così tante macerie. Non ho idea di dove possa essere finita. La cercherò e…»
Le sue parole si dissolsero in un accesso di tosse.
«Tirati la camicia sulla bocca per respirare. Funziona. Nikki, rimani dove sei e continua a parlare. Mi dirigerò verso la tua voce. Cercheremo la torcia insieme.»
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