«Come ha trovato questo posto?» domandò lui.
«Non è terribile rendersi conto di non essere furbi come si credeva?» ribatté lei, non solo a lui, ma anche a se stessa.
Sutcher indossava jeans neri, una camicia nera a maniche corte e stivali neri e fissava Ellen con tutta la cattiveria possibile. I suoi stretti occhi da roditore la guardavano con ira.
«Le ho fatto una domanda», ringhiò.
Colmò gli ultimi tre metri che li separavano, afferrò il polso di Ellen e, con l’altra mano, le piegò le nocche all’indietro finché lei non cadde sulle ginocchia, gridando dal dolore.
«So chi è lei e so cosa ha fatto», riuscì a dire.
Sutcher la tirò in piedi, ma non mollò la mano.
«Di che sta parlando?»
«Le piace tanto fare del male a signore vecchie abbastanza da poter essere sua madre?»
«Mi piace fare del male a chiunque. Allora, glielo chiederò ancora una volta, prima di iniziare a farle del male per davvero. Come ha fatto a trovarmi?»
Ellen visualizzò la nipotina, addormentata nella sua camera da letto mentre quel mostro la fotografava.
«Mi sono messa sottovento e ho annusato», rispose. «Poi ho seguito l’odore ed eccomi qui.»
Senza esitare, Sutcher la colpì, uno schiaffo a mano aperta che la fece girare su se stessa e rotolare giù per il pendio come una bambola di pezza. Contusa e sanguinante, si fermò a metà strada del vialetto, sulla pancia, le braccia e le gambe divaricate, la guancia tagliata schiacciata contro un pezzo di cemento. Era desta e vigile, ma tanto dolorante che, per qualche strano motivo, non sentiva affatto male. Rimase immobile, gli occhi chiusi. Che sarebbe successo ora? Dall’alto, mentre Sutcher discendeva il pendio verso di lei, poté sentire i suoi grugniti e l’acciottolio delle pietre.
Socchiuse gli occhi. Sotto la mano destra vi era una sottile stecca di legno, lunga una novantina di centimetri, dalla cui estremità sporgeva un chiodo, lungo cinque centimetri, forse anche sei. Avrebbe perso contro quel mostro, era un dato di fatto, ma non senza avere tentato di fargli prima del male. Muovendo solo le dita, le serrò attorno al legno. La sua unica possibilità, se ve ne era una, era quella di colpirlo al volto e sperare di prendere un occhio. Il suo odio per quell’uomo era tale che l’idea di accecarlo non la ripugnò.
Il suo respiro affaticato si stava avvicinando. Pensò di averlo sentito incespicare almeno una volta. Bene!… Era qui ora, vicino a lei, e la urtava con la punta dello stivale. Se avesse notato la mano stretta attorno all’asticella e le avesse messo un piede sul polso, la sua unica opportunità per fargli del male sarebbe svanita. Lui sembrava però intento solo a determinare se era viva o no. Per complicargli le cose, trattenne il fiato.
«Forza, girati», disse, infilando sotto di lei la punta dello stivale.
Ellen gli permise di capovolgerla quasi del tutto, prima di completare per lui l’azione. Con un grido acuto, rotolò sulla schiena e nello stesso tempo roteò la sua arma. Il chiodo penetrò fino in fondo nella guancia di Sutcher, meno di due centimetri sotto l’occhio. Lui gridò un’oscenità e traballò all’indietro, tentando di afferrare il pezzo di legno. Proprio mentre lo tirava via, cadde pesantemente e rotolò giù per lo scosceso pendio ricoperto di macerie. Ellen balzò in piedi prima che lui arrivasse al vialetto e, senza badare al dolore delle numerose ferite, si arrampicò su per il pendio.
«Maledetta! Ti ucciderò!» gridò Sutcher. «Sei già morta!»
Anche se lui avesse avuto la chiave della jeep in tasca, non sarebbe mai riuscito a prenderla prima che lei arrivasse alla sua macchina. Inciampando, correndo, prendendo fiato, attraversò di corsa il prato terroso. Pochi attimi prima di raggiungere la Taurus, venne colta dal timore che lui le avesse sgonfiato uno pneumatico o le avesse reso inutilizzabile l’auto in qualche altro modo. Tutto bene. Avere girato l’auto prima di andarsene era stata l’unica idea brillante in un pomeriggio colmo di sciocchezze. Riuscì in qualche modo a salire in macchina e pochi secondi dopo s’immetteva con una derapata sulla strada.
Con gli occhi che saettavano dalla stretta strada allo specchietto retrovisore e ritorno, affrontò la strada sterrata quanto più rapidamente possibile. Avvicinandosi alla fine di quella strada, osò tirare fuori dalla borsa il cellulare. Pregando di trovarsi a portata di un ripetitore, compose il numero che le aveva dato Bill Grimes e rimase sorpresa nel sentire immediatamente la sua voce.
«Signora Kroft, quello che ha fatto non è stata una cosa molto saggia», commentò Grimes dopo che lei gli ebbe fatto un rapido riassunto della situazione.
Dimmi qualcosa che non so, pensò. «Credo mi stia inseguendo», disse. «Che devo fare?»
«Sono su un’auto della polizia», rispose lui. «Lei continui a guidare il più rapidamente possibile finché non mi vedrà arrivare dalla parte opposta, quindi accosti e si fermi. Terrò acceso il lampeggiatore, per cui mi riconoscerà.»
«Oh, grazie.» Ellen sentì il battito del polso calare al di sotto dei mille.
«Tutto bene, signora Kroft. Lei ha fatto una cosa veramente stupida, ma fortunatamente sta bene. Ora prendo io il comando. Lei tiri un profondo respiro e lo esali lentamente. Ora è al sicuro.»
«No! Assolutamente no! C’è un bebè che sta dormendo qui. Ora andatevene, per favore. Basta interviste.»
Don Cleary sbatté la porta e tornò nell’appartamento, imprecando contro la porta a pianoterra con serratura e il sistema di sicurezza con cicalino che da un anno almeno non funzionavano più. Dannazione, pensò, sarà bellissimo andarsene da quel quartiere di case popolari una volta per tutte.
«Altri giornalisti?» domandò Sherrie sonnolenta, dal suo cantuccio sul divano.
«Sono stipati sulle scale come conigli e ci sono troupe televisive sul marciapiede.»
Lui, Sherrie, sua suocera e alcuni amici avevano guardato il programma televisivo sull’Omnivax, avvisati da una certa Tricia dell’ufficio di Lynette Marquand. Come la donna aveva promesso, per proteggere, almeno per il momento, la loro privacy, i loro nomi non erano stati diffusi. Naturalmente, dopo l’iniezione, le cose sarebbero cambiate. Su questo non avevano dubbi. La signora Marquand, aveva detto Tricia, fornirà loro volentieri una persona che li avrebbe aiutati ad affrontare la stampa e li avrebbe avvantaggiati economicamente in ogni possibile modo, e di certo ci sarebbero state molte offerte.
Poi, solo un’ora o poco più dalla fine del programma, il telefono aveva iniziato a squillare. Nessuno di coloro che chiamavano sembrava sapere esattamente come aveva ottenuto il numero di telefono dei Cleary o il nome di Donelle. All’inizio, lui e Sherrie si erano sentiti eccitati. Avevano rilasciato un’intervista registrata a un reporter di una stazione televisiva di Washington e permesso a un fotografo del Post di entrare in casa e di scattare loro una foto con la neonata. Dopodiché, mentre l’assalto dei mezzi di comunicazione si intensificava, avevano cominciato a dire di no. Ora si stavano arrabbiando.
Nella sua culla accanto al divano, Donelle cominciò a piangere.
«Dannazione, l’ho svegliata», imprecò Don. «Scusami, tesoro.»
Corse alla culla, prese in braccio il prezioso fagotto e si sedette vicino alla moglie. Il piagnucolio della piccola si arrestò immediatamente. I suoi occhi scuri si spalancarono e parvero fissarsi sul suo volto.
«Ti sta guardando?» chiese Sherrie. «Che civetta.»
«Già, proprio come sua madre.»
«Smettila! Donny, guarda, non è perfetta?»
«Sì.»
«Cosa pensi diventerà? Una ballerina? O… o un medico? O forse un’atleta famosa?»
«Non lo so e non m’importa», rispose Don. «In verità, c’è un’unica cosa che voglio che sia.»
Читать дальше