«Povero dottor Rutledge. Non è più stato lui da quando, alcuni anni fa, è morta sua moglie. È un gran bravo dottore, comunque, da ciò che ho sentito. Se mai fossi dovuta andare da un medico, avrei scelto lui. Allora, cosa la porta qui?»
«Io… ho un appuntamento d’affari. Certo che questa è una splendida città.»
«Grazie, lo pensiamo anche noi. L’appuntamento è qui a Belinda?»
«In realtà, no», rispose Ellen, dopo avere riflettuto se valeva la pensa cercare di determinare dove viveva Vinny Sutcher. «È in una città chiamata Tullis.»
«Perbacco, è proprio la prossima città. Più o meno parte di Belinda.»
Ellen consultò un blocco che tirò fuori dalla sua borsa.
«Deep Woods Road», disse, leggendo l’indirizzo ricavato dalla lista dei passeggeri.
«Mai sentita nominare», ammise la cameriera.
«Io sì», gridò uno dei due vecchi, seduti a quattro o cinque séparé di distanza. «Prenda Main Street fino a Tullis. Attraversi poi tutta la città, svolti a sinistra in Oak, quindi si diriga verso le colline per circa tre chilometri. Dovrà cercare una strada in ghiaia, non credo ci sia un cartello, ma su alcune cassette per la posta c’è scritto Deep Woods.»
«Grazie», gridò Ellen.
«Belinda Road è la continuazione di Main Street fino a Tullis», spiegò la cameriera. «Giri a destra uscendo dal parcheggio e continui diritto. Vedrà un piccolo cartello per Tullis.»
«Quel posto non si merita niente di più grande», sghignazzò il ficcanaso.
La sua battuta fece ridacchiare il suo compagno di tavolo e le due signore nel séparé vicino.
Ellen, abituata a simili ristoranti, non si sorprese nel trovare il polpettone encomiabile e il purè di patate e il sugo adeguatamente casalingo. Lasciò una buona mancia e uscì nel sole del tardo pomeriggio. Mancavano ancora due ore all’appuntamento con Grimes. Da quando il vecchio ficcanaso le aveva indicato la via per Deep Woods Road, non aveva pensato ad altro, spinta dalla rabbia e dalla curiosità di dare almeno un’occhiata a Vinyl Sutcher. Se era come Grimes l’aveva descritto, doveva ricominciare da capo con la lista dei passeggeri. Se la memoria di Grimes fosse stata labile, se lei fosse riuscita a stabilire che la grossa testa di Sutcher presentava una faccia piatta e una cicatrice caratteristica, sarebbe stata sul punto di ottenere una dolce, succulenta vendetta. Doveva solo essere prudente e restare in macchina. Tutto ciò che voleva era dare un’occhiata a quell’uomo o almeno al posto in cui viveva.
Con la stessa vocina che aveva perso la battaglia sulla lettera di Rudy, che ora la supplicava di aspettare fino all’incontro con il capo della polizia, Ellen uscì dal parcheggio e si diresse verso Tullis e Deep Woods Road.
La strada, terra battuta e sassolini spianati, saliva dolcemente attraverso un arco continuo di denso fogliame. Era larga quanto una macchina, con un basso canale di scolo a entrambi i lati e spiazzi dove fermarsi per far passare una vettura che stesse venendo incontro. Prima di una curva c’era una serie di cassette per la posta. Una di esse recava il numero 100 e il nome SUTCHER. Ellen avanzò lentamente, provando uno strano, quasi perverso piacere nel compiere un’azione che sapeva essere potenzialmente pericolosa. Malgrado le cassette per la posta, non vide alcuna casa. Da entrambi i lati partivano invece vialetti in terra battuta che s’insinuavano nel bosco, la maggior parte con un’asse inchiodata a un albero che indicava il numero della casa.
62… 70… 83…
Ellen rallentò ancora di più. Numerosi vialetti erano privi di numero. Che uno di quelli fosse quello di Sutcher?
90…
Con il cuore in gola, Ellen si fermò e, facendo manovra in una delle stradine senza numero, girò l’auto. Poi aprì cautamente la portiera.
Stai facendo una cosa stupida, stava dicendo la vocina. Una cosa assolutamente sciocca.
Infilò le chiavi nella tasca dei pantaloni, chiuse delicatamente la portiera e si avviò su per la strada stretta.
100.
Il numero, dipinto in nero su un’asse di legno di pino, era inchiodato ad altezza d’occhi sul tronco di una piccola betulla. Subito dietro la betulla, il bosco si diradava, lasciando il posto a una radura, dietro la quale vi era un paesaggio spettacolare, una larga valle solcata da fiumi, che si stendeva verso colline lussureggianti e montagne grigio-blu. Al centro della radura vi era una casa nuova, o vecchia restaurata a fondo da poco, a un piano, moderna, con grandi finestre panoramiche e pareti esterne in legno di cedro chiazzato di mogano. Sparsi in giro, notò i resti della costruzione. Il prato non era stato ancora sistemato, anche se la tubazione di un impianto di irrigazione sotterraneo era lì, pronta per essere installata. Non vi era garage, ma una parte del futuro prato era stata ricoperta di ghiaia e forniva spazio per due automobili.
Benché certa che la proprietà fosse al momento vuota, Ellen la osservò per almeno cinque minuti, nascosta e protetta nel bosco. Nessun movimento.
Ansiosa di dare una sbirciatina all’interno, uscì dall’ombra e si diresse verso la casa, il polso che batteva rapidamente. Sebbene la casa non fosse ancora completata, di certo qualcuno l’abitava. Attraverso le finestre vide che era ammobiliata in uno stile decisamente maschile, divani e poltrone in pelle, pesanti tavoli spogli. Incoraggiata dal silenzio, Ellen premette il viso contro il vetro e sbirciò all’interno: sopra la mensola un’enorme testa di alce e numerosi fucili e pistole agganciati alla parete. Scrutò l’interno, alla ricerca di fotografie. Niente. Una finestra alla volta, arrivò al fianco della casa.
Il panorama era magnifico, reso ancora più bello dal sole che stava calando verso le montagne. La casa, pur non essendo costruita su uno strapiombo, era situata in cima a un pendio scosceso. Ellen fece un passo verso il bordo. La scarpata era più che altro terra, erbacce e pietre, ingombra di assi, cinghie e pezzi di cemento da portare via quando quel posto fosse stato sistemato. In quel momento si rese conto che la casa non aveva un solo piano come pareva dalla strada, ma due e forse addirittura tre scavati nel fianco della collina. Fece qualche passo esitante lungo il pendio e rimase a bocca aperta. Vi erano due piani abitabili, quello che aveva esaminato lei e un altro sottostante. Ciascuno presentava un solido muro in vetro sfumato che si stendeva per tutta la lunghezza della casa. Il piano sottostante era un garage, costruito anch’esso nel fianco della collina, da cui partiva uno stretto vialetto che curvava seccamente a destra, per poi dirigersi verso un punto non molto distante da dove lei aveva parcheggiato.
Nel garage vi era una grande Jeep nera quattro per quattro.
A quella vista, Ellen sentì stringersi il petto.
«Allora, che succede qui?»
La tonante voce di Vinyl Sutcher fu come una lancia nel cuore di Ellen. Spaventata, roteò su se stessa, inciampò e cadde su un ginocchio, finendo su un pezzo di cemento puntuto. Balzò in piedi, incurante del dolore, dello strappo nei pantaloni e della macchia di sangue che vi si stava rapidamente spandendo intorno. Sutcher era sopra di lei, a sei metri circa di distanza, le mani sui fianchi, un ghigno sulla sua enorme faccia piatta.
«Sapevo che era lei», esclamò Ellen sprezzante.
«Venga su… ho detto, VENGA SU, PORCA PUTTANA!»
Ellen esitò, poi lentamente ubbidì. Aveva fatto un terribile, tremendo sbaglio e ora ne avrebbe pagato le conseguenze con il dolore e poi, presto o tardi, con la vita. Se il pendio dietro di lei fosse stato solo un po’ più ripido, avrebbe potuto farla finita rapidamente o tentare almeno di trascinare anche lui giù con lei. Così invece, il vialetto in basso avrebbe frenato qualsiasi caduta. Non poteva fare altro che starsene lì a fissarlo.
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