«Non capisco.»
«Nemmeno io. Ma ascolta, Matt, per come la vedo io, forse tu sei ancora sulla pista giusta. Prima di saltare a qualsiasi conclusione, andiamo a Boston e vediamo cos’ha da mostrarci Joe.»
«Dammi cinque minuti per raccogliere le idee e si parte.»
«Solo fino alla più vicina International House of Pancakes, comunque. Mi è venuta un’improvvisa, insaziabile voglia di frittelle inzuppate di sciroppo di acero.»
«E così sia», borbottò Matt diretto in bagno. «Prima mi ricopre di prioni, poi vuole riempirsi di frittelle. Che genere di donna sarà mai?»
Nikki rimase colpita dalla sua allegra battuta, ma sapeva che la rivelazione di Joe Keller l’aveva colpito. Da ciò che le aveva detto la sera precedente, Matt era deciso a denunciare i dirigenti della società mineraria di Belinda per tutte le scorciatoie prese nel corso degli anni e per tutte le persone che avevano rovinato comportandosi così. Quegli strani casi erano solo il catalizzatore che aveva cercato per distruggerli, la prova che lo smaltimento incontrollato delle tossine organiche stava causando gravi danni biologici. Sarebbe stato, tuttavia, arduo collegare la miniera con l’infezione da prione. In ogni caso, ricordò a se stessa, nulla era ancora certo.
Se vi fossero state delle risposte, Joe Keller le avrebbe trovate.
Matt tornò ben lavato e rasato e molto carino. Si era tolto la felpa Yale e aveva indossato la T-shirt nera e la giacca in tela denim che portava quando era corso nel bosco e l’aveva salvata. A Nikki piacque quel cambiamento, lui era molto più denim che Ivy League.
«Pronta?»
Lei si alzò e gli pose le mani sulle spalle. I suoi occhi trovarono immediatamente quelli di lei.
«Sei stato veramente in gamba e molto coraggioso la notte scorsa», osservò Nikki.
«Se avessi riflettuto su ciò che stavo facendo, con ogni probabilità sarei svenuto.»
«Ne dubito.»
Aveva avuto intenzione di dirgli molto di più, c’erano tante cose che voleva sapere di lui, ma d’improvviso si ritrovò sulle punte dei piedi, le braccia attorno al suo collo.
«Grazie, Matthew Rutledge», sussurrò. «Grazie per avermi salvato la vita.»
Forse aveva sempre saputo che l’avrebbe baciato. Forse, allacciata a lui su quella motocicletta, aveva promesso a se stessa che, fossero sopravvissuti, l’avrebbe baciato, che lui lo volesse o no. Eppure, porre le labbra sulle sue, brevemente e teneramente, fu un’esperienza tanto sorprendente quanto eccitante. Si staccò quel tanto da guardarlo negli occhi, e nei suoi non vide alcun dubbio. Il secondo bacio fu più intenso, più lungo e più appassionato. Le sue braccia muscolose la strinsero, mentre le labbra e la lingua esploravano le sue. Lei fece scorrere le dita sulle sue guance e sul mento. Quando infine si staccarono, riuscì a malapena a stare in piedi.
«Non ricordo l’ultima volta che ho desiderato così tanto baciare una donna», mormorò lui.
«In questo caso, sono felice di essere arrivata al momento giusto.»
«Molto divertente. In realtà, è stato molto divertente. Sai, non ricordo le esatte parole, ma baciare un paziente non vuole dire violare qualche paragrafo del giuramento di Ippocrate?»
Lei lo baciò di nuovo, questa volta giocosamente.
«Chiamalo rianimazione bocca a bocca», ribatté lei. «Credo che la mia assicurazione malattie questo lo copra.»
Lui lanciò un’occhiata nostalgica al letto, ma non fece nulla per spingerla da quella parte.
«Per quello ci sarà tempo», mormorò lei dolcemente. «Te lo prometto. Ora però abbiamo del lavoro da fare.»
«Lavoro da fare, frittelle da mangiare. Mio Dio, quanto baci bene.»
«Anche tu. Se sei d’accordo, possiamo esercitarci ogni cento chilometri, tanto per perfezionare l’arte un po’ di più.»
«Questo farebbe miracoli per la mia capacità di guida. Oh», soggiunse, «tieni.» Le porse la felpa di Yale. «L’avevo acquistata per te. Grande, ma è l’unica taglia che avevano.»
«Perché Yale?»
«Perché era l’unica che avevano senza qualche stupida versione straniera di una frase inglese, come Sport Duro o Grande Corsa.»
«In ogni caso, tu sei molto più West Virginia che Yale, e detto da me, questo è un complimento.»
«Come mai?»
Lei s’infilò la felpa, quindi lo baciò sulla guancia.
«Perché», rispose, sottolineando con il palmo della mano le quattro lettere, «è qui che mi sono laureata.»
Nattie ed Eli Serwanga vivevano in una modesta casa in un quartiere abitato da bianchi e neri a Evanston, lungo la costa del Lago Michigan, appena a nord di Chicago. Ellen era seduta al tavolo da pranzo, sorseggiava tè con miele e cercava di ricordare l’ultima volta che si era sentita tanto triste. C’era lo stato di cose con Rudy e il senso di colpa e di umiliazione che provava per avere aperto la lettera. La sua situazione, tuttavia, impallidiva alla luce di ciò che avevano sopportato quei due. Mentre parlavano, la sua mente tornava di continuo sull’incredibile resoconto degli orrori della battaglia contro la febbre di Lassa della dottoressa Suzanne O’Connor.
Sulla quarantina, i Serwanga, gentili e generosi con lei, erano chiaramente innamorati, la coppia perfetta per avere e crescere dei figli. Invece non ne avevano e non ne avrebbero mai potuto avere. Ad accrescere la loro tragedia, l’irrefutabile prova che Nattie era responsabile, sebbene non intenzionalmente, della morte di due bambini di otto anni che frequentavano il doposcuola dell’ospedale dove lavorava. Una bella situazione.
«Per favore, Nattie», chiese Ellen, «può dirmi di nuovo quando ha scoperto di essere ammalata?»
Nattie prese un fazzoletto di carta da una scatola mezzo vuota e si asciugò alcune lacrime. Era una bella donna, grande ed espansiva, pelle color ebano, occhi enormi ed espressivi.
«È stato circa due settimane dopo il nostro ritorno dall’Africa», ripeté. «Siamo tornati di martedì e due lunedì dopo ho cominciato ad avere mal di gola. Dieci giorni dopo ero in sala operatoria. Hanno fatto nascere il bambino, ma è nato morto. Hanno cercato poi di salvarmi l’utero, ma l’emorragia era stata troppo violenta.»
Eli, che indossava ancora abito e cravatta da lavoro, si alzò e si pose alle sue spalle per confortarla. Erano andati a trovare i suoi parenti in Sierra Leone e lui ammise di sentirsi in colpa per averla convinta a rimanere una settimana in più, mentre risolveva alcune faccende di famiglia, la settimana durante la quale i medici erano convinti fosse rimasta infetta. Ellen sorseggiò il tè e rifletté sull’impatto del suo fresco senso di colpa.
«Se le mie domande la sconvolgono troppo», disse, «me lo dica.»
«Ce la stiamo cavando», replicò Eli. «Ci piacerebbe, comunque, se potesse dirci dove portano tutte queste sue domande.»
Ellen pose sul tavolo la lista dei passeggeri. Durante il volo da Washington a Chicago era riuscita a troncare i tentativi di conversazione di un venditore di elettrodomestici divorziato da poco e completamente egocentrico, seduto vicino a lei, e aveva esaminato tutti i voli, alla ricerca di combinazioni, passeggeri che si erano trovati su più di un volo con una futura vittima della febbre di Lassa. Ve ne erano almeno sei.
«Ho motivo di sospettare che Nattie sia stata infettata o subito prima o subito dopo avere lasciato la Sierra Leone, o sul volo verso casa.»
«Ma come?» domandò Nattie.
«Non lo so.»
«Vuole dire», chiese Eli, «che sta pensando che qualcuno l’abbia infettata deliberatamente?»
«È su questa possibilità che sto indagando. Vi supplico entrambi di non parlare a nessuno dei miei sospetti, finché non avrò finito la mia ricerca. È una questione di vita e di morte. Potete promettermelo?»
«Sì», risposero all’unisono. «Naturalmente», soggiunse Nattie.
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