«Guarda», esclamò Matt, indicando la mano destra di Keller, poggiata sul grembo dell’uomo morto.
L’indice era stato troncato di netto all’altezza della nocca mediana.
«Oh, mio Dio!» gridò Nikki, barcollando all’indietro, gli arti contratti.
Matt le cinse le spalle e la strinse a sé.
«Tesoro, non toccare più niente», la implorò.
«Chi farebbe una cosa simile? Perché? Era un uomo tanto dolce e caro. Perché? Gesù. Oh, merda! No.»
Non riusciva a stare ferma, continuava a dondolare da un piede all’altro, a battere i pugni contro le cosce. Matt la trascinò via dal corpo del suo maestro, cercando contemporaneamente di confortarla, di valutare la scena e di restare vigile, qualora il killer fosse ancora nell’edificio. Pensò all’arma nella borsa sulla moto e si maledisse per non averla portata con sé quando Keller non aveva aperto la porta. Aveva sospettato vagamente che potessero esserci dei problemi, ma non aveva prestato sufficiente attenzione al suo intuito. Non aveva il minimo dubbio che il torturatore e assassino del medico legale fosse in qualche modo collegato a Kathy Wilson. C’era forse Grimes nelle vicinanze, o i suoi scagnozzi?
A un’estremità dell’ufficio c’era un tavolo da conferenze rotondo. Matt fece accomodare Nikki su una sedia rivolta dalla parte opposta di Keller.
«Nikki, mi spiace veramente, sono dispiaciuto e nauseato.»
«Pensi che abbia a che fare con Grimes?» singhiozzò.
«Sto tentando di capire come, ma sì, ne sono certo.»
Decise di non porle altre domande su ciò che poteva avere detto a Grimes durante la funzione religiosa in memoria di Kathy o nella casupola.
«V… voglio aiutarti», mormorò lei.
«Tra un attimo. Nik, puoi rimanere qui seduta mentre io mi guardo in giro?»
«Sì.»
«Bene. Tieni le mani sulle ginocchia. So che vi è una logica spiegazione per la presenza delle tue impronte in questo edificio, ma non vorrei fossero le uniche impronte fresche di un dipendente di questo ufficio.»
«Capisco. Matt, lo hanno torturato. »
Matt camminò attorno alla scrivania ed esaminò tutto l’ufficio. Nessuna pistola, nessun coltello, nessun dito. Si accovacciò e studiò il volto contuso e alterato di Keller. Il setto nasale era sicuramente rotto e vi era probabilmente una frattura dell’osso orbitale sopra l’occhio sinistro.
Al calare della sera avevano discusso di nuovo se rivolgersi o no alla polizia e avevano deciso di aspettare.
«Nikki», chiese Matt, «puoi dire quando è stato ucciso?»
«Dovrei esaminarlo per essere precisa, ma da ciò che ho visto, direi un paio d’ore fa.»
«Possiamo quindi aspettare prima di chiamare la polizia.»
«E forse farlo da un telefono a gettoni.»
«Torna, allora, con me alla motocicletta.»
«Non vuoi guardarti in giro e cercare di scoprire perché lo hanno fatto?»
«Oh, sì. Ma c’è qualcosa nella mia borsa che vorrei recuperare, caso mai fossero ancora qui in giro.»
Pochi minuti dopo, con Matt che teneva imbracciato il revolver a canna mozza di Larry, iniziarono una ispezione sistematica dell’edificio.
«Presupponendo che ciò abbia a che fare con Kathy», domandò Matt, «cosa pensi volessero?»
«Non lo so. Iniziamo dalle nostre schede. Sono in una stanza chiusa a chiave dietro la sala delle autopsie.» Coprendosi le punte delle dita con la camicia, Nikki compose il suo codice su un tastierino, aprendo la porta che dava nella lunga e stretta stanza dell’archivio. «I dossier sugli scaffali sono sistemati secondo il numero del caso», spiegò, dirigendosi verso uno stretto armadio a sei cassetti. «Questo schedario è alfabetico.»
«E?»
«Non riesco a trovare la sua scheda. Vi sono sette Katherine Wilson, ma nessuna è quella giusta.»
«Guarda», esclamò Matt, indicando una chiazza scura sull’angolo della lunga tavola al centro della stanza.
Nikki scrutò la macchia. «Avevano portato qui Joe.»
Fece scorrere di nuovo le cartelle, quindi tirò fuori tutte le Wilson e le pose sul tavolo. Matt le passò una a una, poi scosse la testa.
«Nada.»
«Abbiamo una copia di tutte le schede.»
Nikki si sedette al terminale del computer, batté alcuni tasti, quindi scrisse un numero.
Anche lì mancava la scheda di Kathy Wilson e, con quella, tutti i dati dell’autopsia.
«Usate un servizio di trascrizione dei dati?»
Nikki era già tornata al terminale.
«Ne abbiamo uno interno. La registrazione è stata cancellata dal database. Hanno pensato a tutto tranne che alla lista di riserva delle schede. Joe è riuscito in qualche modo a non parlarne. Andiamo giù a istologia. È proprio sotto la sala delle autopsie.»
Chiusero l’archivio ed entrarono nella grande sala delle autopsie con i suoi tre tavoli in acciaio inossidabile. Il tavolo centrale era occupato. Un uomo dalla pelle color rame, che indossava ancora stivali da lavoro e una tuta macchiata, giaceva serenamente, i pollici agganciati alle bretelle, gli occhi che non vedevano, fissi sul controsoffitto. Dove prima c’era l’occhio sinistro, vi era ora una densa macchia di sangue coagulato e tessuto. Sotto il sangue coagulato non poteva esserci che un foro di proiettile.
«Oh, Cristo», borbottò Nikki, girando la testa.
«L’addetto alla manutenzione?»
Lei annuì. «Santiago.»
«Un tocco carino avergli agganciato così i pollici.»
«Le scale per istologia sono laggiù.»
Non sorprese nessuno dei due scoprire che i vetrini di Kathy Wilson e tutti i campioni di tessuto non sezionato erano scomparsi.
«Niente», ammise Nikki dopo avere controllato l’ultimo posto dove potevano esserci tessuti di Kathy.
«Due uomini sono morti affinché qualcuno potesse garantirsi proprio questo.»
«Matt», esplose Nikki, «andiamocene di qui. Voglio andare di corsa a casa.»
«Non credo sia una cosa saggia.»
«Non m’importa. Tu hai una pistola. Se non te la senti di usarla, ti assicuro che io sono più che pronta a farlo. Voglio andare a casa. Voglio sedermi e bere una tazza di tè nella mia poltrona e studiare la prossima mossa.»
«D’accordo, d’accordo. Indicami la strada.»
«Grazie.»
«E, Nikki?»
«Sì?»
«Mi spiace veramente per Joe.»
«Lo so, lo so.»
In silenzio, lungo strade per lo più deserte, percorsero i pochi chilometri verso South Boston e parcheggiarono a un isolato di distanza dall’appartamento di Nikki. Matt infilò il revolver nella cintura e lo coprì con la camicia, tenendo la mano sul calcio. Cautamente camminarono lungo la pittoresca serie di villette bi e trifamiliari, una attaccata all’altra, stando ben attenti a qualsiasi movimento provenisse dalle macchine posteggiate lungo la strada.
«Come faremo a entrare?» chiese Matt.
«C’è una chiave di riserva in una piccola scatola calamitata dietro il pluviale. Kathy perdeva di continuo la sua.»
La chiave era proprio dove aveva previsto fosse. Con cautela, salirono le scale fino al secondo piano. Matt estrasse il revolver e lo tenne puntato mentre Nikki infilava la chiave nella serratura, la girava silenziosamente e apriva la porta.
«Oh, no.»
Il suo appartamento era a soqquadro. Vi erano libri sparsi dappertutto, scaffali svuotati. Le lampade erano state rovesciate, ogni cassetto aperto e svuotato, ogni cuscino e ogni quadro incorniciato gettato in mezzo al pavimento. Statuine e piatti per dolci rotti. Senza pensare che quegli uomini potessero trovarsi ancora in casa, Nikki cadde sulle ginocchia e si mise a singhiozzare istericamente. Matt s’inginocchiò accanto a lei e fece l’unica cosa che gli parve sensata, chiuse la porta con un calcio, le cinse le spalle con il braccio e la lasciò piangere.
Quindici minuti dopo erano ancora nello stesso punto. Alla fine, intontita, Nikki si alzò e si trascinò in camera da letto. Ne uscì poco dopo con uno zaino di media grandezza pieno di vestiti.
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