«C’è la possibilità di ottenere la descrizione dei tatuaggi dai referti medici?» domandò Calhoun a David.
«Penso di sì, di solito i medici li notano durante una visita medica e io li descriverei in un referto.»
«Aiuterebbe di certo a sveltire il lavoro. Potrei cominciare a contattare tutti quelli che hanno il tatuaggio sul polso o sull’avambraccio.»
«Che cosa ne dice di controllare prima le persone che lavorano in ospedale?»
«Ah, sì, quelle avranno la precedenza. Ma mi piacerebbe parlare anche con Steve Shegwick, che ha un tatuaggio sull’avambraccio.»
Dopo che Calhoun ebbe mangiato il gelato e bevuto il caffè, rimasero seduti a tavola tutti e tre a fare progetti per il giorno dopo.
«Comincerò a parlare con i dipendenti dell’ospedale che hanno il tatuaggio», propose Calhoun. «Continuo a pensare che sia meglio se sto io in prima linea. Non vogliamo altri mattoni nelle vostre finestre.»
«Io tornerò in archivio», si offrì David. «Prenderò i numeri di sicurezza sociale e le date di nascita e vedrò se trovo la descrizione dei tatuaggi.»
«Io rimarrò con Nikki», disse Angela. «E poi, quando David sarà tornato con i dati che ci servono, farò una corsa a Cambridge.»
«Non possiamo mandarli al tuo amico con il fax?» chiese David.
«Gli chiediamo un favore! Non posso inviargli un fax e chi s’è visto s’è visto.»
David alzò le spalle.
«E poi c’è il dottor Holster, il radioterapista», ricordò loro Calhoun. «Qualcuno deve parlare con lui. Lo farei io, ma credo che uno di voi due farebbe un lavoro migliore.»
«Ah, sì, me n’ero dimenticato», ammise David. «Potrei vederlo domani, dopo che ho finito all’archivio.»
Calhoun si alzò e si batte la mano sulla pancia. «Grazie per la cena, una delle migliori che ho mangiato da molto, molto tempo a questa parte», disse. «Credo che sia ora di condurre me il mio stomaco a casa.»
«Quando ci risentiamo?» gli domandò Angela.
«Appena avremo qualcosa da comunicarci e voi due dovreste dormire. Ve lo dico io che ne avete bisogno.»
Sabato 30 ottobre
Nikki aveva sofferto per tutta la notte di crampi addominali e attacchi di diarrea, ma la mattina stava meglio. Non era completamente in forma, ma era evidente che stava migliorando e la febbre era del tutto assente. David era sollevato, vedendo che il decorso era simile al suo e a quello delle cinque infermiere.
Angela si svegliò depressa per la sua situazione lavorativa e si stupì nel vedere che il marito era così su di giri. Adesso che Nikki stava bene, lui le confessò le paure avute la sera prima.
«Avresti dovuto dirmelo», lo rimproverò lei.
«Non sarebbe servito a niente.»
«Certe volte mi fai così arrabbiare!» Anziché dare inizio a una delle solite liti, Angela corse verso di lui e lo abbracciò, sussurrandogli quanto lo amava.
L’abbraccio fu interrotto dallo squillo del telefono. Era il dottor Pilsner, che voleva sapere come stava Nikki e consigliava di continuare con gli antibiotici e con la terapia respiratoria.
«Lo faremo sicuramente», rispose Angela, che aveva staccato il ricevitore in camera da letto, mentre David ascoltava da quello del bagno.
«Le spiegheremo molto presto perché l’abbiamo portata via in quel modo», aggiunse David. «Ma per ora la preghiamo di accettare le nostre scuse. Il nostro gesto non ha niente a che fare con l’assistenza che lei le ha prodigato.»
«La mia unica preoccupazione è per Nikki», replicò il pediatra.
«Saremo felici, se passerà a trovarla», disse Angela. «E se ritiene necessario il ricovero, la porteremo a Boston,»
«Per ora tenetemi informati», concluse seccamente il dottor Pilsner.
«È irritato», commentò David dopo avere riattaccato.
«Non posso dargli torto. La gente penserà che siamo completamente matti.»
Tutti e due seguirono Nikki nei suoi esercizi respiratori, dandosi il cambio nell’aiutarla a mantenere le posizioni necessarie. «Lunedì potrò tornare a scuola?» chiese lei, quando ebbe finito.
«È possibile», le rispose Angela, «ma non voglio che ci conti troppo.»
«Non voglio rimanere tanto indietro. Caroline potrebbe venire a portarmi i libri?»
Angela e David si guardarono e comunicarono senza parlare. Entrambi capivano che non potevano continuare a ingannare Nikki.
«C’è una cosa che ti dobbiamo dire riguardo a Caroline», cominciò Angela. «Ci spiace terribilmente, ma non è più con noi.»
«Vuoi dire che è morta?»
«Sì.»
«Oh!» fu tutto quello che Nikki riuscì a dire.
Angela guardò il marito, che però non sapeva che cosa aggiungere. David aveva capito che l’apparente indifferenza di Nikki era solo una facciata, com’era successo per la morte di Marjorie. Si sentì stringere la gola dalla rabbia al pensiero che probabilmente tutte e due quelle morti, erano dovute alla stessa mano assassina.
Questa volta le difese di Nikki si sgretolarono più rapidamente e i suoi genitori fecero il possibile per consolarla. Entrambi sapevano che per lei era un colpo tremendo, non solo per l’amicizia che la legava a Caroline, ma anche perché soffriva della stessa malattia.
«Morirò anch’io?» domandò infatti la bimba.
«No», le rispose Angela, «tu stai benone. Caroline ha avuto la febbre alta, tu invece non ne hai per niente.»
Dopo che i timori di Nikki furono placati, David partì per l’ospedale, dove si diresse subito all’archivio. Trovò i numeri di sicurezza sociale e le date di nascita delle venticinque persone individuate da lui e da Calhoun e cominciò a richiedere i referti medici per ognuna di esse, quando si sentì toccare la spalla. Si voltò e vide Helen Beaton. Dietro di lei stava Joe Forbs, della sorveglianza.
«Le dispiacerebbe dirmi che cosa sta facendo?» gli chiese Helen Beaton.
«Sto soltanto usando il computer», balbettò David. Non si aspettava d’imbattersi in qualcuno dell’amministrazione, dato che era sabato.
«A quanto ne so, lei non è più un dipendente del CMV», ribatté la donna, glaciale.
«Sì, ma…»
«Poteva utilizzare le attrezzature dell’ospedale in quanto dipendente del CMV. Ora non è più così.» Helen Beaton si rivolse a Joe Forbs: «Vuole accompagnare per favore il dottor Wilson fuori dall’ospedale?»
L’agente si avvicinò a David e gli fece cenno di alzarsi. Lui, sapendo che era inutile protestare, raccolse i suoi fogli pregando che Helen Beaton non glieli strappasse di mano. Per fortuna, questo non accadde e fu soltanto accompagnato alla porta.
Imperterrito, aspettò che Forbs si fosse allontanato per rientrare in ospedale e dirigersi verso il reparto di radioterapia, dove, dopo avere aspettato mezz’ora, poté incontrare il dottor Holster.
Il suo collega aveva circa dieci anni più di lui, ma sembrava più vecchio, forse a causa dei capelli quasi completamente bianchi. Nonostante avesse molto da fare, fu molto cordiale e gli offrì una tazza di caffè.
«Mi dica, che cosa posso fare per lei, dottor Wilson?»
«Volevo farle qualche domanda a proposito del dottor Hodges.»
«Che strana richiesta. E come mai le interessa proprio il dottor Hodges?»
«È una storia lunga, ma, per farla breve, ho avuto alcuni pazienti il cui decorso ospedaliero assomigliava a quello di alcuni ex pazienti del dottor Hodges. Alcuni di questi sono stati curati da lei.»
«Mi chieda pure.»
«Prima vorrei assicurarmi che questa nostra conversazione rimanga fra noi.»
«Sta pungolando sempre di più la mia curiosità», osservò il dottor Holster, che poi annuì. «Sarà confidenziale.»
«Ho saputo che il dottor Hodges le ha fatto visita il giorno in cui è scomparso.»
«Per essere precisi, ci siamo visti a colazione.»
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