«Be’, mi ha spaventato a morte», ammise Clyde, mettendosi una mano sul petto e lasciando andare un sospiro di sollievo. «Non sono abituato a tornare a casa e trovare qualcuno nel mio appartamento.»
«Mi spiace. Forse avrei fatto meglio ad aspettare sulle scale.»
«Non sarebbe stato comodo. Si sieda. Posso offrirle qualcosa?» Clyde Devonshire posò sul divano il pacchetto che aveva in mano e andò in cucina. «Ho del caffè, oppure…»
«Ce l’ha una birra?»
«Certo.»
Mentre il padrone di casa era in cucina, Phil Calhoun diede un’occhiata al sacchetto gettato sul divano: conteneva alcune videocassette simili a quelle trovate nell’armadio.
Clyde tornò in soggiorno con due birre e si accorse che il sacchetto era stato aperto. Lo prese, dicendo: «Per divertirsi un po’», e ne chiuse accuratamente la sommità.
«Ho notato», commentò Calhoun.
«Lei è etero?»
«A dire il vero, ormai non sono quasi più niente.» Calhoun osservò bene il suo interlocutore. Aveva circa trent’anni, era di media altezza, ben piazzato, con i capelli castano chiari.
«Che genere di domande mi voleva fare?» chiese Clyde.
«Conosceva il dottor Hodges?»
L’uomo gli rispose con una breve risata sarcastica. «Perché mai dovrebbe indagare su quell’essere detestabile che ormai fa parte di una storia passata?»
«A quanto pare, non ne ha una grande opinione.»
«Era un miserabile bastardo, che aveva un concetto antiquato del ruolo degli infermieri. Pensava che fossimo forme di vita inferiori, destinate a svolgere il lavoro sporco e a non mettere mai in discussione gli ordini dei medici.»
«Lei sa chi lo ha ucciso?»
«Non sono stato io, se è questo che pensa. Ma, se lo scopre, me lo faccia sapere, perché mi piacerebbe offrirgli una birra.»
«Lei ha un tatuaggio?» domandò ancora Calhoun.
«Certo, ne ho parecchi.»
«Dove?»
«Vuole vederli?» Alla risposta affermativa, Clyde si tolse la camicia e assunse diverse posizioni da culturista, poi rise. Aveva un tatuaggio a forma di catena intorno ai polsi, un drago sul braccio destro e un paio di spade incrociate sopra i capezzoli.
«Le due spade me le sono fatte fare nel New Hampshire, quando ero ancora a scuola, gli altri a San Diego.»
«Mi mostri meglio quelli sui polsi.»
«Eh, no», rispose Clyde, rimettendosi la camicia. «Se le faccio vedere tutto la prima volta, poi non ritorna più.»
«Lei scia?» cambiò argomento Calhoun.
«Di tanto in tanto. Certo che le sue domande sono a largo spettro.»
«Ha degli occhiali da sci a maschera?»
«Chiunque scii nel New England li ha, a meno che non sia un masochista.»
Calhoun si alzò. «Grazie per la birra, devo andare.»
«Che peccato, stavo cominciando a divertirmi», ridacchiò Clyde.
Calhoun se ne andò volentieri. Quel tipo era decisamente insolito, piuttosto stravagante. Poteva avere ucciso Hodges? Chissà perché, lui pensava di no. Però i tatuaggi sui polsi lo preoccupavano, non avendo potuto esaminarli da vicino. E l’interesse per Kevorkian era soltanto pura curiosità? Per il momento, rimaneva un sospetto, in attesa di ulteriori accertamenti con il computer.
Provò a passare da Joe Forbes, ma trovò soltanto una donna che gli parlò attraverso lo spiraglio della porta e che non volle nemmeno dire a che ora Joe sarebbe ritornato a casa. Poi arrivò davanti alla villetta di Claudette Maurice, per scoprire da una vicina che era in ferie alle Hawaii.
Ritornato sul suo furgoncino, verificò quel era il nome seguente sulla lista: Werner Van Slyke. Anche se aveva già parlato con lui, decise di fargli una seconda visita, dato che la prima volta non sapeva ancora del tatuaggio.
Van Slyke abitava in una stradina tranquilla, dove le case avevano tutte un giardino o un prato davanti. Cosa sorprendente per il capo dell’ufficio tecnico di un grande ospedale, la sua era in uno stato a dir poco pietoso, con l’intonaco che si staccava dal muro e le imposte che pendevano a sghimbescio dai cardini.
Non c’era alcun segno di vita e nel vialetto non c’erano auto. Calhoun si accese un sigaro e attraversò la strada. Premette il campanello, ma non ne uscì alcun suono, allora provò a bussare, senza ottenere risposta.
Girò intorno alla casa, cercando di guardare dentro alle finestre, ma erano così sporche che non riuscì a vedere nulla. Arrivato sul retro, notò due portelloni di legno, tipo boccaporto, chiusi da catenacci. Sicuramente coprivano le scale che scendevano in cantina.
Tornato davanti alla porta d’ingresso, si guardò bene intorno per assicurarsi che nessuno lo vedesse, e provò ad aprirla. Non era chiusa a chiave.
Per essere assolutamente sicuro che in casa non ci fosse nessuno, Calhoun bussò di nuovo più forte che poté, aspettò qualche istante, poi mise di nuovo la mano sulla maniglia. Con sua grande sorpresa, la porta si aprì da sola.
«Che cosa diavolo vuole?» chiese sospettoso Van Slyke, comparso come un fantasma sulla soglia.
«Mi spiace disturbarla», disse Calhoun, dopo avere tolto il sigaro di bocca. «Ero da queste parti e ho pensato di passare da lei. Si ricorda, le avevo detto che sarei ritornato. Ho qualche altra domanda da farle. Che cosa ne dice? È un momento poco opportuno?»
«No, può andare bene. Ma ho poco tempo.»
«Non rimango mai più del tempo che mi viene spontaneamente concesso.»
Helen Beaton dovette bussare diverse volte alla porta d’ingresso dello studio di Traynor, prima di sentire i passi che si avvicinavano.
«Sono sorpresa di trovarti ancora qui», gli disse quando finalmente lui le aprì.
«Dedico talmente tanto tempo alle questioni che riguardano l’ospedale che mi tocca venire qui la sera e durante i weekend, per mandare avanti il mio lavoro», spiegò Traynor, conducendola nel proprio ufficio.
«Ho fatto fatica a trovarti.»
«Come ci sei riuscita?»
«Ho telefonato a casa tua e ho chiesto a tua moglie.»
«È stata gentile?»
«Non particolarmente», ammise Helen.
Traynor si sedette alla propria scrivania, ingombra di carte. «Non mi sorprende», commentò.
«Ti devo parlare della giovane coppia che abbiamo assunto la primavera scorsa. Si sono rivelati un disastro e sono stati licenziati tutti e due ieri. Il marito dipendeva dal CMV e lei lavorava nel nostro reparto di patologia.»
«Me la ricordo. Wadley le stava intorno come un cane in calore, al picnic del Labour Day.»
«Questo è parte del problema. Wadley l’ha licenziata e lei lo ha accusato di molestie sessuali, minacciando di fare causa all’ospedale. Ha detto che era andata a notificare la cosa a Cantor, prima di essere licenziata, e lui lo ha confermato.»
«Wadley aveva un motivo per licenziarla?»
«Secondo lui, sì. Dice che ha ripetutamente lasciato la città durante l’orario di lavoro, persino dopo che lui l’aveva espressamente avvertita di non farlo.»
«Allora non dobbiamo preoccuparci», fu il parere di Traynor. «Se lui ha avuto ragione a licenziarla, siamo a posto. Li conosco i giudici che si occuperanno del caso. Finiranno con il darle una lezione.»
«Comunque io non sono tranquilla», borbottò Helen. «E il marito, il dottor David Wilson, ha in mente qualcosa. Proprio stamattina l’ho mandato via dagli archivi. Ieri era entrato nei programmi dell’ospedale, cercando i dati sui tassi di mortalità.»
«Perché diavolo lo avrà fatto?»
«Non ne ho idea.»
«Ma tu mi hai detto che i nostri tassi di mortalità vanno bene, per cui non c’è da preoccuparsi.»
«Sono informazioni riservate», obiettò lei. «Il pubblico non sa come interpretarli e potrebbero rivelarsi un disastro per le nostre relazioni pubbliche. Proprio una cosa che non ci possiamo permettere.»
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