Ma che cosa doveva fare?
Riserva di Hluhluwe-Umfolozi,
ore 10.34
Painter era seduto a gambe incrociate nella capanna di mattoni di fango ed erba intrecciata, con una serie di mappe e schemi tutt’attorno. L’aria odorava di concime e polvere, ma il piccolo accampamento zulù era un perfetto punto di raccolta, ad appena dieci minuti dalla tenuta dei Waalenberg.
Di quando in quando gli elicotteri della sicurezza si levavano in volo dalla tenuta e sorvolavano l’accampamento, sorvegliando i confini, ma Paula Kane aveva orchestrato tutto quanto per bene. Dall’alto, il piccolo villaggio sembrava soltanto una stazione di sosta per le tribù nomadi di zulù. Nessuno avrebbe potuto sospettare che in una di quelle capanne primitive fosse in corso una riunione.
Si erano radunati per mettere assieme le proprie risorse e decidere una strategia.
Gunther e Anna erano seduti di fronte a Painter, mentre Lisa era al suo fianco, come sempre, dal loro arrivo in Africa, con un’espressione decisa, ma lo sguardo preoccupato. Il maggiore Brooks era in piedi accanto all’uscita, nell’ombra, sempre vigile, con la mano sulla fondina della pistola.
Ascoltavano tutti attentamente il resoconto di Khamisi. Con lui c’era un nuovo arrivato: Monk Kokkalis.
Con grande sorpresa di Painter, Monk era giunto all’accampamento con un giovane esausto e scioccato. L’agente aveva trascorso l’ultima ora a raccontare l’accaduto, rispondere alle domande e colmare i vuoti.
Anna fissava con occhi iniettati di sangue la serie di rune che Monk aveva appena disegnato. Allungò una mano tremante verso il foglio. «Queste sono tutte le rune contenute nei libri di Hugo Hirszfeld?»
Monk annuì. «E quel vecchio schifoso era convinto che fossero determinanti per una fase successiva del suo piano.»
Lo sguardo di Anna si spostò su Painter. «Il dottor Hirszfeld era il supervisore del progetto Sole Nero. Come le ho già detto, era convinto di aver risolto l’enigma della Campana e aveva completato un ultimo esperimento in segreto, da solo, che, a suo dire, aveva generato un bambino perfetto, non corrotto da tare o involuzioni. Un Cavaliere del Sole sano. Ma il suo metodo… come abbia fatto… nessuno lo sa.»
«E poi c’è la lettera che ha scritto a sua figlia», aggiunse Painter. «Qualsiasi cosa abbia scoperto lo ha spaventato: Una verità troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata. Perciò ha nascosto il suo segreto in questo codice di rune.»
Anna sospirò, stanca. «E Baldric Waalenberg era talmente sicuro di poter risolvere l’enigma e impadronirsi delle conoscenze perdute, che ha distrutto il Granitschloß. »
«Credo che ci sia qualcos’altro, oltre al fatto che non servivate più», commentò Painter. «Penso che lei avesse ragione, prima. Il vostro gruppo era una minaccia crescente, perché parlavate di uscire allo scoperto. Lui era a un passo dalla perfezione, dalla realizzazione del sogno ariano, e non poteva rischiare che voi rovinaste tutto.»
Anna avvicinò a sé il foglio con le rune. «Se Hugo aveva ragione, decifrare questo codice potrebbe rivelarsi essenziale per curare la nostra involuzione. La Campana ha già la capacità di rallentare la nostra malattia, ma, se riuscissimo a risolvere questo enigma, potrebbe darci una guarigione completa.»
«Prima di tutto dobbiamo accedere alla Campana dei Waalenberg», intervenne Lisa. «Poi potremo preoccuparci delle cure.»
«E Gray?» chiese Monk. «E la ragazza?»
Painter mantenne un’espressione impassibile. «Non sappiamo se è nascosto, se è stato catturato o se è morto. Per il momento, il comandante Pierce deve contare soltanto su se stesso.»
Il viso di Monk s’inasprì. «Posso intrufolarmi di nuovo là dentro, usando la mappa di Khamisi.»
«No, adesso dobbiamo rimanere uniti.» Painter si sfregò la testa, dietro l’orecchio destro, in preda a un dolore lancinante. I suoni divennero echi lontani e sentì montare la nausea.
Monk lo fissava. Lui fece un gesto, come a cancellare la preoccupazione del collega. Ma qualcosa nello sguardo di Monk suggeriva che non fosse preoccupato soltanto dei disturbi fisici del suo capo.
Painter stava prendendo le giuste decisioni? Le sue facoltà mentali erano intatte? La mano di Lisa si appoggiò sul suo ginocchio, come se intuisse la sua costernazione.
«Sto bene», borbottò lui, rivolto sia a se stesso sia a lei.
A prevenire qualsiasi ulteriore indagine, il tappeto appeso alla porta fu scostato, facendo penetrare la luce e il calore del sole. Chinandosi, Paula Kane entrò nella capanna buia, seguita da un anziano zulù in tenuta cerimoniale: penne, piume e una pelle di leopardo decorata con perline colorate. Anche se aveva circa sessantacinque anni, il suo viso era privo di rughe e sembrava scolpito nella pietra. Aveva la testa rasata e portava un bastone di legno guarnito di piume, ma anche un fucile antico, che sembrava più un paramento che un’arma funzionante.
Mentre si alzava, Painter lo riconobbe: era un vecchio fucile inglese a pietra focaia e anima liscia, un Brown Bess che risaliva alle guerre napoleoniche.
Paula presentò l’ospite: «Mosi D’Gana, capo zulù».
L’anziano parlava un inglese chiarissimo. «È tutto pronto.»
«Grazie per la sua assistenza», disse Painter, in tono formale.
Mosi annuì appena. «Ma non è per voi che prendiamo le lance. Abbiamo un credito coi voortrekker per Blood River.»
Paula spiegò di cosa si trattava. «Quando gli inglesi hanno scacciato i boeri olandesi da Città del Capo, questi si sono insediati nell’entroterra e sono entrati in contatto con le tribù indigene, xhosa, pondo, swazi e zulù. Nel 1838, lungo un affluente del Buffalo River, gli zulù furono traditi: fu un massacro. Il corso d’acqua è stato ribattezzato Blood River, fiume di sangue. Il voortrekker responsabile dell’assalto era Piet Waalenberg.»
Mosi sollevò la sua vecchia arma e la porse a Painter. «Noi non dimentichiamo.»
Painter non dubitava che quel fucile fosse stato usato in quella infame battaglia. Accettò l’arma, sapendo che il passaggio del vecchio fucile a pietra focaia suggellava un patto.
Con grande scioltezza, Mosi si mise a sedere a gambe incrociate. «Abbiamo molto da pianificare.»
Paula fece un cenno a Khamisi e tenne scostato il tappeto alla porta. «Il tuo furgone è pronto. Tau e Njongo stanno già aspettando.» Guardò l’orologio. «Dovrai sbrigarti.»
Il guardacaccia si alzò. Ognuno aveva un compito da svolgere prima che calasse la notte.
Painter incrociò lo sguardo di Monk. Ancora una volta, lesse la preoccupazione negli occhi del collega, ma non era per lui, era per Gray. Mancavano otto ore al tramonto, e non c’era nulla che potessero fare sino ad allora.
Gray era solo.
ore 12.05
«Tieni giù la testa», bisbigliò Gray a Fiona.
Avanzarono rapidamente verso la guardia in fondo al corridoio. Gray indossava un’uniforme mimetica, con tanto di stivali alla scudiera e berretto nero, con la visiera abbassata sugli occhi. La guardia che gli aveva prestato quella tenuta era priva di sensi, imbavagliata e legata, in un armadio delle camere da letto dei piani superiori.
Gray aveva preso anche la radio e l’auricolare. Le comunicazioni erano interamente in olandese, difficile da comprendere, ma quantomeno si facevano un’idea degli eventi.
Fiona era vestita da cameriera. L’uniforme era un po’ larga, ma era meglio nascondere la sua sagoma e la sua età. La maggior parte del personale della tenuta era costituita da indigeni, con la pelle più o meno scura, come era tipico nelle case degli afrikander. Le origini pakistane di Fiona e la sua carnagione si adattavano bene al contesto. Coi capelli nascosti in una cuffia, poteva essere scambiata per un’indigena. Per completare la messa in scena, camminava a passi piccoli, con atteggiamento remissivo, le spalle cascanti e la testa bassa.
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