Dopo essersi rimesso in piedi, Gray raggiunse Fiona. «Tutto a posto?»
Lei si alzò, più arrabbiata che dolorante. «Ho speso duecento euro per questa gonna.» Il suo vestito aveva un lungo strappo su un lato. Lo tenne chiuso con una mano e si chinò per recuperare la borsa.
L’abito Armani di Gray era messo anche peggio. I pantaloni avevano uno strappo sul ginocchio e, in quanto alla giacca, sembrava che l’avesse strofinata con una spazzola di ferro. A parte qualche graffio ed escoriazione, però, ne erano usciti indenni.
Il traffico continuava a fluire davanti al luogo del loro incidente.
Fiona s’incamminò. «Da queste parti gli incidenti in Vespa sono all’ordine del giorno. E i furti pure. Gli scooter, a Copenhagen, sono una specie di proprietà collettiva. Te ne serve uno? Prenditelo. Poi mollalo per il prossimo che passa. Non gliene frega niente a nessuno.»
Ma a qualcuno sì. Un nuovo stridore di pneumatici attirò la loro attenzione. Una berlina nera s’immise sulla strada, due isolati più indietro, e si diresse verso di loro a gran velocità. Non c’erano né edifici né vicoli. Soltanto un alto muro di cinta, oltre il quale risuonavano allegre melodie di flauti e archi.
Dietro di loro, la berlina rallentò nei pressi della Vespa abbandonata. Senza dubbio la fuga in scooter era stata riferita via radio.
«Vieni», disse Fiona.
Mettendosi la borsa a tracolla, lo condusse a una panchina ombreggiata e ci montò su. Poi, usando lo schienale per darsi lo slancio, fece un salto e si aggrappò a un ramo sopra di lei. Sollevò le gambe e le attorcigliò attorno al ramo.
«Che fai?»
«I ragazzi svegli lo fanno sempre. Entrata gratis.»
«Cosa?»
«Forza!»
Spostando una mano dopo l’altra lungo il grosso ramo, si portò oltre il muro di mattoni, poi si lasciò cadere dall’altro lato e scomparve.
La berlina ripartì lentamente.
Non avendo altra scelta, Gray seguì l’esempio di Fiona. Montò sulla panchina e saltò su. La musica fluttuava nell’aria scintillante e magica della notte. Una volta appeso a testa in giù, Gray si sporse oltre il muro di cinta. Dall’altra parte c’era un paese delle meraviglie, fatto di lanterne sfavillanti, palazzi in miniatura e passatempi funamboleschi.
Tivoli.
Il lunapark di fine secolo era situato nel cuore di Copenhagen. Dalla sua posizione sopraelevata, Gray vedeva il lago al centro del parco: uno specchio d’acqua che rifletteva migliaia di lanterne e luci. Da lì si dipartivano viali bordati di fiori, che conducevano a padiglioni illuminati, montagne russe di legno, giostre e ruote panoramiche. L’antico lunapark non era tanto una Disneyland meno tecnologica, quanto piuttosto un accogliente parco di quartiere.
Gray superò il muro di cinta muovendosi lungo il ramo.
Dall’altra parte, Fiona lo aspettava dietro un capanno degli attrezzi.
Gray sganciò le gambe e rimase appeso per le braccia. Un pezzo di corteccia esplose vicino alla sua mano destra. Spaventato, mollò la presa e cadde, facendo mulinare le braccia in cerca di equilibrio. Atterrò su un’aiuola, sbattendo un ginocchio, ma il terriccio morbido attutì la caduta. Dall’altra parte del muro si udì il brontolio di un motore e una portiera sbattuta.
Li avevano visti.
Con una smorfia in volto, Gray raggiunse Fiona, che lo guardava con occhi sgranati. Aveva sentito anche lei lo sparo. Senza una parola, fuggirono assieme, nel cuore di Tivoli.
Himalaya,
ore 01.22
Lisa era immersa in un bagno fumante di acque termali. Poteva chiudere gli occhi e immaginarsi in un costoso stabilimento idroterapico europeo. Gli accessori di quella stanza erano decisamente raffinati: morbidi asciugamani e accappatoi di cotone egiziano, un enorme letto a baldacchino con una montagna di coperte, accatastate su una trapunta di piumino d’oca alta trenta centimetri. Alle pareti erano appesi arazzi medievali e i pavimenti di pietra erano ricoperti di tappeti turchi.
Painter era nella sala adiacente, impegnato a rattizzare il fuoco del piccolo camino.
Condividevano quella confortevole cella.
Painter aveva detto ad Anna Sporrenberg che loro due stavano assieme, in America. Uno stratagemma per evitare di essere separati.
Lisa non aveva avuto nulla da ridire. Non voleva restare sola.
Anche se la temperatura era al limite dell’ebollizione, la donna aveva i brividi. Da medico, riconosceva i segni dello shock: l’adrenalina che l’aveva sostenuta fino a quel momento cominciava a svanire. Si ricordò di come si era scagliata contro quella tedesca, quasi aggredendola. Che cosa le era saltato in mente? Aveva rischiato che li facessero fuori entrambi.
E per tutto quel tempo, invece, Painter era rimasto così calmo. Anche in quel momento la rassicurava sentirlo mentre aggiungeva un altro pezzo di legno al fuoco, un atto semplice per procurare sollievo e ristoro a tutti e due. Doveva essere esausto. Lui aveva già fatto il bagno, non tanto per motivi igienici, quanto come rimedio contro un principio di congelamento. Lisa aveva notato le chiazze bianche che aveva alle estremità delle orecchie e aveva insistito perché usasse la vasca per primo.
A lei era andata meglio, perché aveva vestiti più pesanti. Comunque s’immerse completamente nella vasca, sprofondando sott’acqua anche con la testa. Il calore le pervase il corpo, riscaldando tutti i tessuti. Le si acuirono i sensi. Non doveva fare altro che inspirare, lasciarsi annegare. Un attimo di panico, poi sarebbe finito tutto: la paura, la tensione. Avrebbe ripreso il controllo del proprio destino, si sarebbe riappropriata di ciò che i suoi carcerieri tenevano in ostaggio.
Solo un respiro…
«Hai quasi finito?» Il suono di quelle parole, smorzato dall’acqua, le sembrava molto distante. «Ci hanno portato uno spuntino.»
Lisa riemerse dall’acqua e dal vapore, i capelli e il viso gocciolanti. «Sì… Esco tra un minuto.»
«Fai con comodo», replicò Painter dall’altra stanza.
Lo sentì aggiungere altra legna al fuoco.
Dove trovava la forza di muoversi? Prima costretto a letto per tre giorni, poi la lotta nel seminterrato, infine quel viaggio al gelo… Eppure andava avanti imperterrito. Forse era soltanto la disperazione, ma percepiva in lui una sorgente di forza che andava oltre la resistenza fisica.
Mentre pensava a quell’uomo, smise finalmente di tremare. Uscì dalla vasca con la pelle fumante e si tamponò con un asciugamano. Appeso a un gancio c’era un morbido accappatoio. Lo lasciò lì ancora per un istante. Accanto a un antico lavabo c’era uno specchio che arrivava fino al pavimento. La superficie era appannata, ma rifletteva comunque la sua figura nuda. Ruotò una gamba, non per un vezzo narcisistico, ma per esaminare la mappa dei lividi sparpagliati sull’arto. I polpacci doloranti le ricordarono una cosa essenziale.
Era ancora viva.
Diede un’occhiata alla vasca.
Non avrebbe concesso loro quella soddisfazione. Sarebbe andata sino in fondo.
S’infilò l’accappatoio. Dopo aver stretto la cintura attorno alla vita, uscì dal bagno. L’altra stanza era più calda. Arrivando, avevano trovato una temperatura accettabile, grazie a una ventola di riscaldamento, ma il fuoco acceso nel camino l’aveva resa molto più accogliente. Il piccolo focolare crepitava allegramente, diffondendo una luce calda e tremolante. L’unica altra illuminazione, una serie di candele accese accanto al letto, contribuiva all’atmosfera intima.
Non c’era elettricità.
Anna Sporrenberg aveva spiegato orgogliosamente che il castello era alimentato quasi interamente a energia geotermica, grazie a un progetto centenario di Rudolf Diesel, l’ingegnere tedesco dai natali francesi che avrebbe in seguito inventato il motore diesel. In ogni caso, l’elettricità non doveva essere sprecata ed era quindi disponibile solo in alcune aree selezionate del castello, tra le quali non rientrava la loro stanza.
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