Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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Girò intorno al bancone e raggiunse Vivien. Le prese il viso fra le mani e la baciò, appoggiando delicatamente le labbra alle sue. Per un istante lei ricambiò il bacio ma subito arrivò una mano decisa sul petto a spingerlo indietro.

Russell si accorse che il respiro le si era accelerato.

«Ehi, calma. Calma. Non intendevo questo, quando ti ho invitato qui.»

Si girò, come per cancellare quello che era appena successo. Per qualche secondo si occupò della pasta, lasciando a Russell la vista delle sue spalle e il profumo dei suoi capelli. La sentì mormorare alcune parole, sottovoce.

«O forse sì. Non lo so nemmeno io. L’unica cosa che so è che non voglio complicazioni.»

«Io nemmeno. Ma se sono il prezzo da pagare per avere te, le accetto volentieri.»

Dopo un istante, Vivien si girò e gli passò le braccia al collo.

«E allora al diavolo la pasta.»

Alzò la testa e questa volta il bacio che gli offrì fu senza mani a spingere via. Il corpo di lei contro il suo era esattamente come Russell se l’era immaginato. Solido e morbido, acerbo e fruttato, consolazione per oggi e desolazione per ieri. Mentre faceva scorrere la mano sotto la felpa e trovava la sua pelle, si chiedeva perché qui, perché ora, perché lei e perché non prima. Vivien continuò a baciarlo mentre nel piacere degli occhi chiusi lo trascinava in camera da letto. La penombra li accolse e li convinse che quello era il posto giusto per loro e per quella eccitazione che strappava abiti di dosso e trasformava un corpo in un luogo sacro.

Mentre si perdeva dentro di lei, mentre scordava nomi e persone, Russell non riusciva a capire se Vivien fosse il chiarore prima dell’alba o un barbaglio dopo il tramonto.

Sapeva solo che era come il suo nome. Luce e basta.

Dopo, restarono raggomitolati come se la pelle dell’una fosse il vestito naturale dell’altro. Russell ebbe la percezione di scivolare nel tepore del sonno e subito si riscosse, per timore di perderla. Si accorse che doveva aver dormito qualche minuto. Allungò una mano e trovò il letto vuoto.

Vivien si era alzata dal letto ed era andata alla finestra. La vide nel controluce, velata dalle tende, accettare il chiarore che proveniva da fuori in cambio di quella prospettiva che gli offriva il suo corpo.

Si alzò e la raggiunse. Scostò i teli e la abbracciò da dietro, sentendo il fisico asciutto di lei aderire al suo. Lei si accostò in modo naturale, come se quello dovesse essere. E niente altro.

Russell le appoggiò le labbra sul collo e respirò il profumo della sua pelle di donna dopo l’amore.

«Dove sei?»

«Qui. Lì. Dappertutto.»

Vivien aveva indicato con un gesto vago il fiume oltre i vetri e tutto il mondo.

«E io sono con te?»

«Da sempre, credo.»

Non aggiunsero altro, perché null’altro c’era da aggiungere.

Fuori dai vetri il fiume scorreva tranquillo e rifletteva luci che erano uno sfarzo inutile ai loro occhi. Tutto quello che serviva per distruggere e costruire era in quella stanza. Restarono affacciati a scambiarsi la consolazione della presenza e i frammenti del rimpianto finché, d’improvviso, una luce abbagliante arrivò dall’orizzonte e attraversò i vuoti fra i palazzi di fronte, fotografandoli nel riquadro di quella finestra.

Qualche istante dopo, alle loro orecchie, arrivò il fragore indecente e presuntuoso di un’esplosione.

CAPITOLO 25

«Siamo nella merda più totale.»

Il capitano Alan Bellew gettò il «New York Times» sulla scrivania, a fare compagnia agli altri quotidiani che già occupavano alla rinfusa il piano. Tutte le testate, una per una, dopo l’esplosione della notte precedente, avevano gettato sul mercato edizioni straordinarie. Erano piene di ipotesi, illazioni, suggerimenti. Ma tutte nello stesso modo si chiedevano cosa stessero facendo le autorità inquirenti, quale difesa avessero predisposto per l’incolumità dei cittadini. Le televisioni si occupavano di quell’evento lasciando qualsiasi altra cosa succedesse nel mondo al ruolo di notizia secondaria. L’intero pianeta era alla finestra e stavano arrivando corrispondenti da tutto il mondo, come se l’America fosse in stato di guerra.

La nuova esplosione era avvenuta a notte inoltrata in riva all’Hudson, a Hell’s Kitchen, in un capannone sulla Dodicesima Avenue all’altezza della 48sima Strada, giusto di fianco al Sea Air and Space Museum, dove era esposta la portaerei Intrepid. La costruzione si era letteralmente disintegrata. I frammenti avevano colpito la nave ormeggiata di fianco e danneggiato gli aerei e gli elicotteri esposti sul ponte, un tragico e nostalgico déjà vu delle guerre che avevano combattuto. I vetri dei palazzi vicini erano stati distrutti dallo spostamento d’aria. Un anziano era morto d’infarto. La strada era in parte franata nell’Hudson e il fuoco aveva illuminato a lungo una scena desolata, con relitti in fiamme trasportati dalla corrente e le macerie al rogo di un posto che solo per l’ora tarda non si era trasformato nel teatro di una nuova strage da commemorare. Le vittime si contavano nell’ordine della ventina, più un numero imprecisato di feriti non gravi. Un gruppo di nottambuli, il cui solo torto era quello di essere lì in quel momento, erano stati letteralmente smembrati e i loro resti si erano sparsi sull’asfalto. Del guardiano notturno del capannone non era rimasta traccia. Alcune macchine in transito erano state investite dall’esplosione e scaraventate via in un groviglio di lamiere accartocciate.

Altre non avevano fatto in tempo a frenare ed erano finite nel fiume insieme ai detriti della strada. I passeggeri erano tutti morti. I pompieri avevano combattuto a lungo prima di spegnere il fuoco e gli esperti della Polizia avevano iniziato le ricognizioni in loco non appena la scena era stata accessibile.

Si attendevano i risultati da un momento all’altro.

Dopo una notte livida e insonne, Russell e Vivien stavano nell’ufficio del capitano, a dividere con lui la frustrazione e l’impotenza a sconfiggere l’uomo che li stava sfidando.

Uno e invisibile.

Bellew finalmente smise di muoversi per la stanza e si sedette sulla sedia, senza per questo trovare pace.

«Sono arrivate telefonate da tutte le parti. Il presidente, il governatore, il sindaco. Ogni maledetta autorità di questo Paese ha preso in mano il telefono e ha chiamato qualcun altro. E tutti si sono concentrati sul capo. Il quale, naturalmente, subito dopo mi ha chiamato.»

Russell e Vivien attesero in silenzio l’esito di quello sfogo.

«Willard si sente affondare e annaspando trascina sotto anche me. Ha un complesso di colpa per aver peccato di prudenza.»

«Tu che gli hai detto?»

Bellew fece un gesto che comprendeva l’ovvio e il suo esatto contrario.

«Gli ho detto che da una parte non abbiamo ancora la certezza di stare seguendo la pista giusta, dall’altra gli ho ribadito che quanta più gente è al corrente del fatto, quante più probabilità ci sono di una fuga di notizie. Se questa voce dovesse arrivare nelle orecchie di quelli di Al-Qaeda, sarebbe un vero disastro. Avremmo un concorrente spietato nella caccia a quella lista. Pensa che gola farebbe loro. Una città già minata, solo da far esplodere. Se fosse di dominio pubblico, New York nel giro di tre ore si trasformerebbe in un deserto. Con il casino che potete immaginare.

Autostrade intasate, feriti, sciacallaggio, gente dispersa chissà cazzo dove.»

Vivien riusciva a farsi un quadro abbastanza dettagliato della situazione.

«L’FBI e l’NSA che dicono?»

Il capitano appoggiò i gomiti sul tavolo.

«Poco. Sai che quelli del piano nobile non si sbottonano facilmente. Pare che stiano seguendo per conto loro una traccia di terrorismo islamico. Ora non ci sono eccessive pressioni da quella parte. Almeno questa è una nota positiva.»

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