Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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Prese il portatile, lo appoggiò sul tavolo e lo accese. A sorpresa trovò una connessione wireless non protetta ed ebbe l’accesso a Internet.

Controllò la posta. Poche cose. E dal tenore usuale. Time Warner Cable che gli spiegava i motivi della cessazione del servizio, un’agenzia che gli spiegava i motivi per cui presto avrebbe ricevuto una lettera da un avvocato e Ivan Genasi, un amico fotografo molto bravo che chiedeva dove fosse finito. Era l’unico a cui non dovesse dei soldi. Per gli altri messaggi, l’unica causale era rappresentata da mancati pagamenti o mancata restituzione di prestiti. Russell si trovò a disagio. Gli sembrava, leggendo quelle e-mail, di violare la privacy di una persona che non conosceva, di accedere all’intimità di uno sconosciuto, tanto si sentiva lontano in quel momento dall’uomo che aveva ispirato quelle lettere.

Chiuse il programma di posta e aprì un nuovo documento di Word.

Rimase un attimo sovrappensiero poi decise di salvarlo come «Vivien».

Iniziò dapprima ad annotare alcuni dei pensieri che gli erano passati per la testa da quando quella storia era iniziata. Se li era appuntati facendo un nodo a un fazzoletto mentale ogni volta che una considerazione interessante nasceva spontanea dagli eventi. Poco per volta, mentre scriveva, le parole iniziarono a fluire senza soluzione di continuità, come se ci fosse una connessione diretta fra il pensiero e le mani e la tastiera del notebook. Si fece prendere dal racconto oppure fu lui che prese il racconto e lo costrinse in cifre nere sullo schermo pallido che aveva davanti. Non lo sapeva e non gli interessava neppure. Gli bastava quel senso di completo possesso che la scrittura gli dava in quel momento. La voce di Vivien lo sorprese che aveva già steso quasi due pagine.

«Tocca a te, se vuoi.»

Si girò e la vide. Aveva indossato una tuta leggera e aveva ai piedi delle normali ciabatte infradito. Ispirava un’aria di freschezza e innocenza.

Russell l’aveva vista reagire all’aggressione di un uomo grosso tre volte più di lei e metterlo nell’impossibilità di nuocere. L’aveva vista tenerne a bada altri puntando loro addosso una pistola. L’aveva vista trattare un balordo come una pezza da piedi.

Aveva pensato di lei che era una donna pericolosa. E solo in quel momento, nel preciso istante in cui si presentava a lui del tutto indifesa, capiva quanto. Si girò a guardare il portaritratti sul mobile, dal quale una donna e una ragazza sorridevano. Pensò che il posto naturale di Vivien era in quella foto, a dividere con loro la bellezza.

Poi riportò gli occhi su di lei e rimase a fissarla senza parlare, al punto che lei lo riprese.

«Ehi, che ti succede?»

«Un giorno, quando questa storia sarà finita, mi dovrai permettere di farti delle foto.»

«A me? Stai scherzando?»

Vivien indicò la foto nel portaritratti.

«È mia sorella la fotomodella della famiglia. Io sono quella al limite della mascolinità che fa il poliziotto, ricordi? Non saprei nemmeno cosa fare davanti a un obiettivo.»

Quello che stai facendo adesso sarebbe più che sufficiente, pensò Russell.

Capì che, nonostante le parole di risposta e di fuga, quella richiesta le aveva fatto piacere. E vide sul suo viso una sorpresa e inattesa timidezza, che forse in altri momenti nascondeva tendendo in avanti un distintivo.

«Dico sul serio. Promettimelo.»

«Non dire scemenze. E vattene dalla mia cucina. Ti ho lasciato degli asciugamani puliti in bagno.»

Russell salvò quello che aveva scritto sul desktop, si alzò dal tavolo e andò a prendere della biancheria e dei vestiti puliti dalla borsa. Si infilò in bagno dove trovò una pila di asciugamani appoggiati su un mobile di fianco al lavandino. Si spogliò, aprì l’acqua nella doccia e si accorse che la temperatura a cui l’aveva lasciata impostata Vivien era perfetta anche per lui.

Un dettaglio. Una sciocchezza. Ma lo fece sentire a casa lo stesso.

Entrò sotto il getto e lasciò che l’acqua e la schiuma lavassero via la stanchezza e i pensieri di quella e delle giornate precedenti. Dopo la vicenda di Ziggy e l’esplosione, si era sentito per la prima volta in vita sua davvero solo e incapace davanti a responsabilità troppo difficili da sostenere. Adesso invece era lì e faceva parte di qualcosa, qualcosa che apparteneva solo al lui, al suo presente e non ai suoi ricordi.

Chiuse il miscelatore e uscì dalla doccia, cercando di non gocciolare l’acqua al di fuori del tappetino. Prese il telo di spugna e iniziò ad asciugarsi, trovandolo morbido e profumato. A casa dei suoi, dove c’era una schiera di persone di sevizio e la biancheria migliore, non ne aveva mai trovato uno così soffice. O almeno in quel momento gli sembrava così.

Si asciugò i capelli e indossò una camicia e un paio di calzoni puliti.

Decise di uniformarsi alla sua ospite e rimase a piedi scalzi.

Quando uscì dal bagno Vivien era seduta davanti al notebook. Aveva aperto il documento salvato con il suo nome e stava leggendo quello che Russell aveva scritto.

«Che fai?»

Vivien continuò a leggere, senza nemmeno girare la testa, come se quell’invasione in un computer altrui fosse del tutto naturale.

«Il poliziotto. Indago.»

Russell protestò senza troppa convinzione.

«Questa è una flagrante violazione della privacy e della libertà di stampa.»

«Se non vuoi che io ficchi il naso, non devi dare il mio nome a dei file.»

Quando finì di leggere, si alzò e senza commentare andò verso il bancone della cucina. Russell si accorse che c’era una pentola sul fuoco e un tegame con un sugo rosso di fianco. Vivien alzò la portata della cappa di aspirazione. Poi indicò l’acqua che iniziava a bollire.

«Penne all’arrabbiata. O spaghetti, a scelta.»

Russell rimase sorpreso. Lei intervenne su quella sorpresa con qualche parola a proprio favore.

«Sono di origine italiana. Li so fare. Ti puoi fidare.»

«Certo che mi fido. Mi chiedo solo come hai fatto in così poco tempo a improvvisare un sugo.»

Vivien gettò la pasta nella pentola e mise il coperchio, per favorire la seconda ebollizione.

«È la prima volta che vieni sulla Terra? Sul tuo pianeta non ci sono i congelatori e i forni a microonde?»

«Sul mio pianeta non mangiamo mai a casa. Pensa che il palazzo dell’imperatore è una tavola calda.»

Russell si avvicinò a Vivien, che stava dall’altra parte del bancone. Si sedette su uno sgabello e curiosò con lo sguardo nella padella.

«In realtà la capacità di una persona di destreggiarsi tra i fornelli mi ha sempre affascinato. Io una volta ci ho provato e sono riuscito a far bruciare le uova sode.»

Vivien continuò a occuparsi della pasta e del sugo. La battuta di Russell non aveva scavalcato i suoi pensieri di quel momento.

«Sai, oggi mi è capitato più volte di chiedermi come sei veramente.»

Russell alzò le spalle.

«Uno qualunque. Non ho avuto pregi particolari. Mi sono dovuto accontentare di difetti particolari.»

«Un pregio ce l’hai. Ho letto quello che hai scritto. È bellissimo.

Convincente. Arriva a chi legge.»

Questa volta fu il turno di Russell di essere compiaciuto del complimento e di cercare di non darlo a vedere.

«Dici? E la prima volta che lo faccio.»

«Dico. E se vuoi sapere il mio parere, aggiungerei una cosa.»

«Quale?»

«Se tu non avessi passato la tua vita a cercare di essere Robert Wade, forse avresti scoperto che suo fratello può essere una persona altrettanto interessante.»

Russell sentì una cosa che si muoveva dentro alla quale non sapeva dare un nome. Qualcosa che arrivava da un posto che non credeva esistesse e che era andata a infilarsi in un posto che non credeva di avere.

Capiva solo che desiderava fare una cosa. E la fece.

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