Jeff Lindsay - Il nostro caro Dexter

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Il nostro caro Dexter: краткое содержание, описание и аннотация

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Collaboratore della scientifica di Miami, oltre che uomo affascinante e spiritoso, Dexter sente continuamente l’istinto irrefrenabile a uccidere che sfoga soltanto su chi, a suo parere, se lo merita: assassini, pedofili, stupratori. Finora è giunto al quarantesimo omicidio senza destare alcun sospetto, però adesso un collega sta iniziando a fiutare qualcosa. Per non farsi smascherare, Dexter decide di recitare per un po’ la parte del bravo poliziotto e del fidanzato perfetto, dedicando molto tempo alla nuova fiamma e ai due bambini di lei. Per quanto tempo riuscirà a tenere a freno il suo alter ego? Mentre cerca di depistare il collega, viene coinvolto dalla sorellastra Debbie, agente della Omicidi, nel caso di un sadico serial killer che uccide secondo rituali affini ai suoi, mutilando con precisione chirurgica le proprie vittime, lasciandone alcune vive e spaventosamente traumatizzate. L’appetito di Dexter viene stuzzicato, ma deve essere tenuto sotto controllo finché c’è in giro la sua nemesi, il tenace Doakes, che però all’improvviso scompare. È ora di mettersi sulle tracce di quel misterioso chirurgo e di far agire il Passeggero, a meno che non sia la preda ora a braccare il cacciatore…

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Un momento.

Chiusi gli occhi e cercai di pensare. Il dottor Danco sapeva che Kyle era un professionista. E, come avevo già spiegato a Deborah, il suo obiettivo era trasformare la vittima in un vegetale urlante. Perciò…

Aprii gli occhi. «Deb», dissi. Lei mi guardò. «Ti sembrerà strano… ma c’è qualche speranza.»

«Sputa», fece.

«È solo un’ipotesi», dichiarai. «Però credo che il dottor Demente risparmierà Kyle per un po’, prima di agire su di lui.»

Deb aggrottò le sopracciglia. «Perché dovrebbe?»

«Per farlo durare di più e per indebolirlo. Kyle sa che cosa lo aspetta. È preparato. E ora immagino che l’abbia sdraiato nell’oscurità, mani e piedi legati, per lasciar lavorare la sua immaginazione. E quindi», aggiunsi, «credo che ci sarà un’altra vittima prima di lui. Il tipo scomparso. Così Kyle sentirà tutto… le seghe, gli scalpelli, i lamenti e i sussurri. Persino l’odore. E saprà che capiterà anche a lui, ma non saprà quando. Sarà mezzo impazzito prima ancora che gli stacchi un’unghia.»

«Gesù», mormorò Deborah. «E questo è il tuo concetto di speranza?»

«Certo. E ci dà un margine di tempo per trovarlo.»

«Gesù», ripeté lei.

«Potrei sbagliarmi», la misi in guardia.

Deb guardò fuori dalla finestra. «Non ti sbagliare, Dex. Non stavolta.»

Scossi la testa. Non sarebbe stato per nulla divertente. Mi venivano in mente soltanto due possibili piste e per entrambe bisognava aspettare la mattina. Mi guardai intorno alla ricerca di un orologio. Secondo il videoregistratore erano le 12.00. Le 12.00. Le 12.00. «Hai un orologio?» domandai.

«Che cosa te ne fai?» chiese Deborah contrariata.

«Voglio sapere che ore sono», dissi. «Di solito servono a quello.»

«Che cazzo ti cambia?» chiese lei.

«Deborah! Ora abbiamo molto poco su cui lavorare. Dobbiamo tornare indietro di qualche passo e fare tutto il lavoro di routine che Chutsky ha impedito di svolgere al dipartimento. Fortunatamente, puoi usare il tuo distintivo per andare in giro a fare domande. Ma dobbiamo aspettare il mattino.»

«Merda», fece. «Odio aspettare.»

«Su, su», la consolai. Deborah mi guardò acida, ma non disse nulla.

Neanche a me piaceva aspettare, però ultimamente non avevo fatto altro e forse ora mi riusciva più facile. In ogni caso, tirammo l’alba dormicchiando sulle sedie. Poi, dato che negli ultimi tempi il più casalingo dei due ero io, preparai il caffè per entrambi. Una tazza per volta, visto che la caffettiera di Deborah era di quelle singole, fatte per gente che non si aspetta di avere una gran vita sociale. In frigo non c’era nulla che fosse almeno lontanamente commestibile, se non per un cane randagio. Davvero seccante: Dexter è un ragazzo in salute e con un elevato metabolismo; per lui affrontare una giornata impegnativa a stomaco vuoto non è un’ottima prospettiva. D’accordo, la famiglia viene prima, ma non si può aspettare dopo colazione?

Ah, be’. Il Devoto Dexter si sacrifica ancora una volta. E per pura nobiltà di spirito, senza aspettarsi nessun ringraziamento. Si fa quel che si deve.

15

Il dottor Mark Spielman era un uomo robusto che somigliava più a un giocatore di football a riposo che a un medico del pronto soccorso. Era lui di turno quando l’ambulanza aveva trasportato la Cosa al Jackson Memorial Hospital, e non ne era affatto felice.

«Se mai mi capitasse di rivedere qualcosa del genere», ci disse, «andrei in pensione e mi metterei ad allevare bassotti.» Scosse il capo. «Voi sapete com’è il pronto soccorso qui al Jackson. È uno dei più affollati. Qui approdano i casi più folli di questa città, che già è una delle più folli del mondo. Ma questo…» Spielman diede due colpi sul tavolo della saletta verde pallido riservata al personale «… è un’altra faccenda», aggiunse.

«Qual è la prognosi?» domandò Deborah e lui la guardò severo.

«Mi prende in giro? Non c’è nessuna prognosi e non ci sarà mai. Dal punto di vista fisico, non si può fare altro se non mantenerlo in vita, se così possiamo chiamarla. Sul piano mentale…» Aprì le mani e le lasciò ricadere sul tavolo. «Non sono uno strizzacervelli, ma mi pare che a quell’essere non sia rimasto più nulla: non avrà più un barlume di lucidità, mai più. La sua unica speranza è restare sotto l’effetto dei farmaci tanto da non sapere più chi è finché non muore. Cosa che ci auguriamo gli accada al più presto.» Guardò l’orologio, un bel Rolex. «Ne avete ancora per molto? Sono in servizio, sapete.»

«C’erano tracce di droga nel sangue?» chiese Deborah.

Spielman sbuffò. «Diamine. Il suo sangue era un cocktail di psicofarmaci. Mai visto un miscuglio del genere. Tutti studiati per tenerlo sveglio, ma nello stesso tempo togliergli la sensibilità al dolore, in modo che il trauma delle amputazioni multiple non lo uccidesse.»

«I tagli presentavano segni particolari?» domandai.

«Quel tipo ha una certa pratica», disse Spielman. «Sono stati effettuati tutti con un’ottima padronanza della tecnica. Ma avrebbe potuto insegnargliela qualsiasi scuola al mondo.» Sospirò e un sorriso mortificato gli attraversò la faccia. «Alcuni erano già cicatrizzati.»

«E questo quanto tempo ci dà?» chiese Deborah.

Spielman alzò le spalle. «Dalle quattro alle sei settimane», fece. «Per smembrare chirurgicamente un uomo ci vorrà massimo un mese, un pezzo dopo l’altro. Non riesco a immaginare niente di più terribile.»

«Lo fa davanti a uno specchio», precisai, comprensivo come sempre. «Così la vittima è obbligata a guardare.»

Spielman sembrava sconvolto. «Mio Dio», sussurrò. Rimase seduto ancora un minuto, poi ripeté: «Oh, mio Dio». Infine scosse il capo e guardò di nuovo il Rolex. «Sentite, mi piacerebbe aiutarvi, ma questo è…» Allargò le braccia e le lasciò ricadere sul tavolo. «Non credo di potervi essere di grande aiuto. Almeno non vi faccio perdere altro tempo qui. Quel signor, uh… Chesney?»

«Chutsky», lo corresse Deborah.

«Sì, proprio lui. Mi ha chiamato per chiedermi di fare un’identificazione mediante scansione della retina presso… uhm… un certo database in Virginia.» Alzò un sopracciglio e contrasse le labbra. «Comunque, ho ricevuto ieri un fax con l’identificazione della vittima. Ve lo prendo.» Si alzò e scomparve in corridoio. Tornò un attimo dopo con un foglio di carta. «Ecco qua. Nome: Manuel Borges. Originario del Salvador. Lavora nel ramo delle importazioni.» Mise il foglio davanti a Deborah. «So che è ben poca cosa, ma credetemi, è tutto. L’aspetto che ha…» Si strinse nelle spalle. «Non credo che ve ne facciate molto.»

Dal soffitto un piccolo altoparlante borbottò qualcosa che poteva anche provenire da un programma tivù. Spielman alzò la testa, aggrottò le sopracciglia e disse: «Devo andare. Spero che lo prendiate». Si precipitò in corridoio così rapidamente che il fax sul tavolo svolazzò.

Guardai Deborah. Il fatto che avessimo scoperto il nome della vittima non era bastato a incoraggiarla. «Be’», esordii, «so che non è molto.»

Lei scosse la testa. « Non è molto sarebbe già un grande progresso. Questo è niente » Guardò il fax, lo lesse una volta. «Salvador. Legato a una specie di organizzazione chiamata FLANGE.»

«Che stava dalla nostra parte», spiegai.

Lei mi guardò.

«Era la fazione appoggiata dagli Stati Uniti. L’ho letto su Internet.»

«Splendido. Così abbiamo scoperto qualcosa che sapevamo già.» Deborah si alzò e si diresse alla porta. Non era veloce quanto il dottor Spielman, ma quel che bastava a farsi correre dietro fino al parcheggio.

Deborah guidava rapida e silenziosa, con la mascella serrata, alla volta della piccola abitazione sulla North West 4 thStreet, dove tutto aveva avuto inizio. Ovviamente il nastro giallo non c’era più; Deb parcheggiò a casaccio, come fanno i poliziotti, e scese dalla macchina. La seguii lungo il breve vialetto che portava dalla casa accanto a quella in cui avevamo trovato il fermaporta vivente. Deborah suonò il campanello, sempre in silenzio, e un attimo dopo la porta si aprì. Un uomo sulla cinquantina, con gli occhiali dalla montatura dorata e una guayabera marroncina, ci guardò interrogativo.

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