Jeff Lindsay - Il nostro caro Dexter

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Il nostro caro Dexter: краткое содержание, описание и аннотация

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Collaboratore della scientifica di Miami, oltre che uomo affascinante e spiritoso, Dexter sente continuamente l’istinto irrefrenabile a uccidere che sfoga soltanto su chi, a suo parere, se lo merita: assassini, pedofili, stupratori. Finora è giunto al quarantesimo omicidio senza destare alcun sospetto, però adesso un collega sta iniziando a fiutare qualcosa. Per non farsi smascherare, Dexter decide di recitare per un po’ la parte del bravo poliziotto e del fidanzato perfetto, dedicando molto tempo alla nuova fiamma e ai due bambini di lei. Per quanto tempo riuscirà a tenere a freno il suo alter ego? Mentre cerca di depistare il collega, viene coinvolto dalla sorellastra Debbie, agente della Omicidi, nel caso di un sadico serial killer che uccide secondo rituali affini ai suoi, mutilando con precisione chirurgica le proprie vittime, lasciandone alcune vive e spaventosamente traumatizzate. L’appetito di Dexter viene stuzzicato, ma deve essere tenuto sotto controllo finché c’è in giro la sua nemesi, il tenace Doakes, che però all’improvviso scompare. È ora di mettersi sulle tracce di quel misterioso chirurgo e di far agire il Passeggero, a meno che non sia la preda ora a braccare il cacciatore…

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«Mi spiace interrompervi», intervenni. «Ma mi sembra che davanti a noi ci sia un TIR pieno di birra.»

Debs si guardò intorno di colpo e frenò, appena prima che diventassimo l’adesivo sul paraurti del camion di Miller Light. «Trasmetterò quell’indirizzo all’Antidroga. Domani», dichiarò.

«D’accordo», fece Chutsky.

«E tu butterai via quella bustina.»

Lui la guardò piuttosto sorpreso. «L’ho pagata duemila dollari», fece.

«Tu la butterai», ripeté lei.

«D’accordo», disse. Si guardarono di nuovo negli occhi, lasciando che fossi io a badare ai letali camion di birra. Tuttavia, era bello vedere che tutto si sistemava e l’armonia tornava a regnare nell’universo: finalmente avremmo potuto dedicarci a scovare il mostro disumano della settimana, certi che l’amore trionfa sempre. Dunque era davvero soddisfacente percorrere la South Dixie Highway al termine della tempesta.

Quando spuntò il sole, svoltammo in una strada che ci condusse in un labirinto di viuzze, tutte con la terrificante vista sulla gigantesca discarica soprannominata Monte Pattumiera.

L’indirizzo che cercavamo si trovava proprio in mezzo all’ultima fila di case, zona di confine tra la civiltà e il luogo in cui l’immondizia regnava suprema. Era all’altezza della curva di una strada tortuosa e ci passammo due volte prima di essere certi che fosse proprio quella. Era una modesta costruzione del tipo tripla stanza da letto/doppia ipoteca, dipinta di giallino con i bordi bianchi e il prato ben curato. Nel vialetto e sotto la tettoia non si vedevano macchine; sul davanti un cartello con la scritta VENDESI era stato coperto da un altro che diceva VENDUTO! a vistose lettere rosse.

«Forse non si è ancora trasferito qui», provò a ipotizzare Deborah.

«Potrebbe essere ovunque», fece Chutsky. E contro quella sua logica non trovai nulla da obiettare. «Accosta. Hai un taccuino con una pinza?»

Deborah parcheggiò con una smorfia. «Sotto il sedile. Mi serve per lavoro.»

«Non te lo rovino», promise. Armeggiò per un istante sotto il sedile, poi tirò fuori una cartelletta di metallo a cui erano attaccati diversi moduli da compilare. «Perfetto», disse. «Dammi una penna.»

«Che cosa vuoi fare?» chiese lei, porgendogli una scadente biro bianca con il tappo blu.

«Nessuno ferma mai un uomo con la cartelletta», dichiarò Chutsky ridacchiando.

Prima che noi due potessimo dire qualcosa, era sceso dall’auto e attraversava il vialetto col passo sicuro del burocrate. Si fermò a metà strada a controllare la cartelletta, sfogliò e si mise a leggere alcune pagine, quindi guardò la casa scuotendo la testa.

«Sembra molto bravo in questo genere di cose», dissi a Deborah.

«Sarà meglio per lui», commentò lei. Si morsicò un’altra unghia. Presto sarebbe rimasta senza.

Chutsky continuò la passeggiata, consultando la cartelletta. Sembrava totalmente inconsapevole della strage di unghie che aveva luogo alle sue spalle. Appariva calmo e naturale. Ovviamente doveva avere una certa esperienza di raggiri e intrallazzi (non so quale parola fosse più adatta a descrivere le sue truffe legalizzate). E per colpa sua Deborah si mangiava le unghie e rischiava di andare a sbattere contro camion pieni di birra. Tutto sommato, quell’uomo non aveva un’influenza molto positiva su mia sorella, anche se il fatto che lei avesse un altro con cui mettere il muso e da prendere a pugni non mi dispiaceva affatto. Ero sempre pronto a lasciare che qualcuno si facesse male al posto mio.

Chutsky si fermò davanti all’ingresso principale e si mise a scrivere qualcosa. Poi aprì la porta, non chiedetemi come, ed entrò chiudendola alle sue spalle.

«Merda», sibilò Deborah. «Scasso e violazione di domicilio, oltre al possesso di stupefacenti. La prossima volta mi farà dirottare un aereo.»

«Ho sempre desiderato vedere L’Avana», cercai di sdrammatizzare.

«Ha due minuti», dichiarò laconica. «Poi chiamo i rinforzi e vado a cercarlo.»

A un minuto e cinquantanove secondi la mano di Deborah partì verso la radio, ma la porta si riaprì e ne uscì Chutsky. Si fermò nel vialetto, scrisse qualcosa sul taccuino e tornò alla macchina.

«Bene», dichiarò mentre si sedeva. «Torniamo a casa.»

«Era vuota?» chiese Deborah.

«Completamente», fece lui. «Non un asciugamano, né una lattina.»

«E ora che si fa?» chiese lei mettendo in moto.

Chutsky scosse lentamente il capo. «Si torna al piano A», rispose.

«In che cazzo consiste il piano A?» domandò lei.

«Nell’avere pazienza», rispose Chutsky.

Così, dopo un delizioso pranzetto seguito da un singolare giro di shopping, tornammo ad aspettare.

Passò una settimana della solita noiosa routine. Il sergente Doakes non sembrava arrendersi, nonostante la mia trasformazione in panciuto soprammobile da divano fosse ormai completa. Non trovavo di meglio da fare se non giocare a nascondino o all’Impiccato con Cody e Astor, e inscenare teatrali baci con Rita per la gioia del mio pedinatore.

Poi, nel bel mezzo della notte, squillò il telefono. Il giorno dopo, lunedì, dovevo svegliarmi presto per andare al lavoro; ero d’accordo con Vince Masuoka: l’indomani toccava a me comprare le ciambelle. Ed ecco il telefono che suonava spudorato, come se io non avessi altre responsabilità e le ciambelle si comprassero da sole. Guardai l’orologio sul comodino: le 2.38. Riconosco che quando alzai la cornetta ero piuttosto nervoso.

«Lasciami in pace», dissi.

«Dexter. Kyle è sparito», fece Deborah. Sembrava distrutta, tesissima e indecisa se sparare a qualcuno o mettersi a piangere.

Mi ci volle un attimo per mettere in funzione il mio mirabile cervello.

«Uh, be’, Deb», borbottai, «uno come lui è meglio perderlo che…»

«È scomparso, Dexter. Rapito. Il… il tipo l’ha preso. Il tipo che ha combinato quella roba all’altro», spiegò. Anche se mi sembrava di essere stato sbattuto davanti a una puntata dei Soprano , capii che cosa intendeva. Quello che aveva trasformato la cosa sul tavolo in una specie di patata urlante aveva preso Kyle e probabilmente voleva fare qualcosa di simile anche a lui.

«Il dottor Danco», dissi.

«Sì.»

«Come lo sai?» le chiesi.

«Kyle aveva detto che c’era quel rischio. Lui era l’unico che lo poteva riconoscere. Mi aveva detto che, quando Danco avesse scoperto che Kyle era qui, ci avrebbe provato. Noi avevamo un… un segnale convenzionale, e… Merda, Dexter, vieni subito qui. Dobbiamo trovarlo», e riattaccò.

Sempre a me, non vi pare? Non sono una persona particolarmente gentile, ma chissà per quale motivo è sempre me che chiamano quando hanno un problema. Oh, Dexter, un mostro violento e disumano ha catturato il mio fidanzato! Be’, dannazione, anch’io sono un mostro violento e disumano… Non dovrei per questo avere il diritto di starmene in pace?

Sospirai.

A quanto pareva, no.

Sperai che Vince non facesse storie per le ciambelle.

14

Da casa mia nel Grove ci voleva un quarto d’ora di macchina per arrivare da Deborah. Per una volta non vedevo il sergente Doakes che mi seguiva, ma forse stava usando lo schermo di invisibilità klingoniano. In ogni caso il traffico era scarso e riuscii ad arrivare alla US1. Deborah viveva in una casetta sulla Medina Street a Coral Gables, circondata da alberi da frutto selvatici e da un muro fatiscente di roccia corallina. Parcheggiai l’auto nel vialetto, dietro alla sua, e non avevo ancora fatto due passi che lei spalancò la porta. «Dove sei stato?» chiese.

«A lezione di yoga e poi al centro commerciale a comprarmi un paio di scarpe», risposi. Per la verità, mi ero sbrigato sul serio per arrivare lì in meno di venti minuti dalla sua chiamata, e trovai quel tono vagamente seccante.

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