Erano elencati numerosi elogi e medaglie militari, ma non trovai nessun riferimento agli atti eroici con cui le avrebbe guadagnate. Comunque, il solo fatto di conoscerlo accrebbe il mio spirito patriottico. Il resto del dossier era privo di particolari significativi. Spiccava soltanto un periodo di diciotto mesi detto «servizio distaccato». Doakes l’aveva passato nel Salvador come consigliere militare, poi era ritornato in patria per lavorare sei mesi al Pentagono, infine si era ritirato nella nostra fortunata città. Il Distretto di Polizia di Miami era stato lieto di accogliere un veterano decorato e offrirgli un impiego redditizio.
Non sono un patito di Storia, però mi sembra di ricordare che il Salvador fosse una sorta di museo degli orrori. In quel periodo lungo Brickell Avenue c’erano stati cortei di protesta. Non mi veniva più in mente perché, ma sapevo come scoprirlo. Mi rimisi al computer, mi connessi e, cari miei, lo trovai. Quando c’era Doakes, il Salvador era un circo a tre piste dedito a torture, stupri, omicidi e crimini di ogni genere. E nessuno aveva pensato di invitarmi.
Trovai un’infinità di notizie inviate sulla rete da diversi gruppi per i diritti umani. Erano piuttosto serie, quasi insistenti, nel descrivere ciò che era successo laggiù. In ogni caso, per quanto potessi dire, delle loro proteste non era mai trapelato granché. Dopotutto, si trattava solo di diritti umani. Doveva essere davvero frustrante; la Lega Anti Vivisezione era molto più considerata.
Questi poveri cristi avevano svolto le loro ricerche, pubblicato i loro resoconti su stupri e torture completi di documentazione fotografica, grafici e nomi di quegli oscuri mostri disumani che godevano nell’infliggere dolore alla gente. Intanto i mostri disumani in questione si ritiravano nel sud della Francia, mentre il resto del mondo boicottava i ristoranti che maltrattavano i polli.
La cosa mi dava una grande speranza. Se mai mi dovessero prendere, forse mi basterebbe manifestare contro i latticini e sarei messo in libertà.
I nomi salvadoregni che trovai, come pure i particolari storici, non mi dissero molto. Nemmeno le organizzazioni coinvolte. A prima vista in Salvador la lotta per il potere si configurava come una splendida competizione senza regole in cui non esistevano veri buoni, ma diversi gruppi di cattivi con i campesinos presi in mezzo. Comunque, gli Stati Uniti avevano appoggiato segretamente uno degli schieramenti, che non vedeva l’ora di fare a pezzi i sospetti avversari. Fu questo ad attirare la mia attenzione. Era successo qualcosa che aveva volto gli eventi in loro favore, una terribile minaccia non specificata, qualcosa dall’apparenza così spaventosa da far rimpiangere alla gente gli speroni nel culo.
Di qualunque cosa si trattasse, sembrava coincidere col «servizio distaccato» di Doakes.
Tornai a sedere sulla mia sgangherata sedia girevole. Bene, bene, bene , pensai. Quale interessante coincidenza. Praticamente nello stesso lasso di tempo abbiamo Doakes, orribili e innominabili torture e l’intervento segreto degli Stati Uniti, tutti insieme. Naturalmente non esistono prove di una relazione tra questi tre elementi, né motivi per sospettare un qualche tipo di legame. Eppure ero certo che le tre cose fossero inscindibili. Perché vent’anni dopo o giù di lì erano tornati tutti a Miami per un’allegra rimpatriata: Doakes, Chutsky e l’artefice della cosa sul tavolo. Sembrava che i fatti cominciassero ad andare al loro posto.
Avevo scoperto la mia piccola pista. Se solo avessi trovato un modo per utilizzarla…
Cucù, Albert.
Naturalmente, una faccenda è disporre di informazioni pronte all’uso, un’altra è capirne il significato e riuscire a usarle. In verità, sapevo soltanto che, nel momento in cui in Salvador erano accaduti fatti terribili, Doakes c’era. Poteva non essere stato lui l’esecutore diretto, comunque erano stati autorizzati dal governo.
In segreto, ovviamente; e veniva da chiedersi come mai tutti lo sapessero.
D’altra parte, c’era ancora in giro qualcuno che voleva tenere la cosa sotto silenzio. E al momento quel qualcuno era Chutsky, al quale la mia cara sorella Deborah doveva fare da chaperon. Con la sua collaborazione, forse sarei riuscito a estorcere qualche dettaglio in più da quell’uomo. Cosa avrei fatto dopo era ancora da vedere, ma almeno potevo mettermi in azione.
Sembrava troppo facile. E lo fu, come no? Chiamai subito Deborah e trovai la segreteria telefonica. Provai al cellulare con lo stesso risultato. Per l’intera giornata mia sorella era «fuori ufficio, lasciate un messaggio, prego». La sera, quando provai a casa sua, la situazione non cambiò. Mentre riattaccavo, guardai fuori dalla finestra del mio appartamento: il sergente Doakes era fermo nel suo posto preferito, dall’altro lato della strada.
Una mezza luna spuntò dai brandelli di una nube e mi sussurrò qualcosa. Fiato sprecato. Non contava quanto avrei desiderato uscire di soppiatto a giocare con Reiker, tanto non potevo, non con quella orribile Taurus marrone parcheggiata fuori come una coscienza da quattro soldi. Distolsi lo sguardo alla ricerca di qualcosa da prendere a calci. Ecco, era venerdì sera e mi impedivano di passeggiare nel buio con il mio Passeggero Oscuro… e adesso non riuscivo neanche a trovare mia sorella al telefono. La vita è tragica, a volte.
Camminai per un po’ su e giù per l’appartamento senza combinare nulla, a parte consumare le scarpe. Chiamai Deborah altre due volte: continuava a non essere a casa. Guardai di nuovo fuori dalla finestra. La luna si era mossa lentamente, Doakes no.
E va bene. Passiamo al piano B.
Mezz’ora dopo ero seduto sul divano di Rita con una lattina di birra in mano. Doakes mi aveva seguito e dovevo supporre che mi stesse aspettando fermo in macchina dall’altro lato della strada. Sperai che si stesse divertendo quanto me, quindi per niente. Vivevano così gli esseri umani? Erano così tristi e decerebrati da attendere con ansia il venerdì sera, istanti preziosi sottratti alla schiavitù del lavoro, per sedersi davanti alla tivù con una birra? Era un passatempo da imbecilli e notai con orrore che mi ci stavo abituando.
Dannato Doakes. Mi stai facendo diventare normale.
«Ehi, mister», fece Rita, accovacciandomisi addosso, «come mai sei così silenzioso?»
«Forse lavoro troppo», risposi. «E mi diverto poco.»
Lei restò un momento in silenzio, poi disse: «È ancora la storia del tipo che hai dovuto lasciar andare, non è vero? Quello che era… che uccideva i ragazzini?»
«In parte sì», ammisi. «Non amo i lavori lasciati a metà.»
Rita annuì, quasi come se avesse davvero capito a cosa mi riferivo. «È proprio… Voglio dire, ti vedo teso. Forse dovresti… non so. Di solito che cosa fai per rilassarti?»
Mi comparve alla mente qualche buffa scenetta con cui descriverle il mio hobby, ma probabilmente non era una grande idea. Allora feci: «Be’, mi piace uscire in barca. Andare a pescare».
E una vocina dietro di me sussurrò: «Anche a me».
Fu grazie ai miei collaudati nervi d’acciaio che non battei la testa contro le pale del ventilatore sul soffitto; è quasi impossibile cogliermi di sorpresa, eppure non mi ero accorto che ci fosse qualcun altro nella stanza. Mi voltai e alle mie spalle c’era Cody, che mi guardava con i suoi occhi grandi e spalancati. «Anche a te?» risposi. «Ti piace pescare?»
Annuì. Tre parole in una volta e aveva superato il limite massimo giornaliero.
«Allora», continuai, «è deciso. Che ne dici di domani mattina?»
«Oh», fece Rita, «non credo… voglio dire, lui non… Non devi disturbarti, Dexter.»
Cody mi guardò. Ovviamente non aprì bocca, ma non ne aveva bisogno. Glielo si leggeva negli occhi.
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