Ma stavolta avevano davvero esagerato. Avevo trovato uno schizzo sul ventilatore da soffitto, forse proveniente dalla lama del machete mentre l’assassino alzava il braccio tra un colpo e l’altro. E siccome le pale giravano, c’erano macchie di sangue anche negli angoli più lontani della stanza.
Era stata una giornata dura per Dexter. Proprio mentre stavo componendo un paragrafo del rapporto teso a spiegare che si trattava del cosiddetto «delitto passionale», squillò il telefono.
«Ehi, Dex», disse la voce. Era così tranquilla, quasi addormentata, che mi ci volle un attimo prima di capire che si trattava di Deborah.
«Dunque», osservai, «le dicerie sulla tua morte erano ingiustificate.»
La sua risata suonava distesa, non nevrotica come al solito. «Sì», rispose, «sono ancora viva. Ma Kyle mi ha tenuto molto impegnata.»
«Rammentagli i diritti dei lavoratori, sorellina. Anche i sergenti hanno bisogno di riposo.»
«Mmm, non so», replicò. «Anche senza sto davvero bene.» E scoppiò in una risatina roca che non era da lei; ci mancava solo che mi chiedesse qual era il modo migliore per fare a pezzi un essere umano.
Tentai di ricordare in quale altra occasione Deborah avesse dichiarato di stare «davvero bene» senza mentire. Non mi venne in mente nulla. «Sembri molto strana, Deb», notai. «Che cosa diavolo ti è successo?»
Stavolta la sua risata fu un po’ più lunga, ma sempre allegra. «Il solito», rispose. Scoppiò di nuovo a ridere. «Comunque, cosa c’è?»
«Oh, nulla», risposi innocentemente. «La mia unica sorella scompare per giorni e notti senza dirmi una parola e finalmente ricompare come se fosse uscita da La sergente perfetta. Ammetterai che possa essere curioso di sapere che cosa diavolo sta succedendo, no?»
«Diamine», ribatté lei. «Sono commossa. Mi sembra quasi di avere per fratello un essere umano.»
«Spero che continui a restare un quasi.»
«Che ne dici se pranziamo insieme?»
«Ho già appetito», dissi. «Relampago?»
«Mmm, no. Perché non andiamo all’Azul?»
Immaginai che la scelta del ristorante desse un senso ulteriore al suo comportamento precedente, che di senso non ne aveva. A Deborah piaceva mangiare alla buona e l’Azul era il classico posto dove pranzava la famiglia reale saudita quando veniva in città. A prima vista, la sua trasformazione in aliena sembrava ormai completata.
«All’Azul, di sicuro. Vado a vendere la macchina per pagare il pranzo e ti raggiungo là.»
«All’una», aggiunse. «E non preoccuparti per i soldi. Paga Kyle.» Riattaccò. In verità non saltai su con un «Aha!» ma mi si accese una lucina.
Avrebbe pagato Kyle, eh? Bene, bene. E pure all’Azul.
Se la scintillante e pacchiana South Beach era la zona di Miami riservata alle aspiranti celebrità, l’Azul era il luogo adatto per gli amanti del glamour. I piccoli caffè che affollavano South Beach facevano a gara per attirare l’attenzione, strombazzando con insistenza felicità a buon mercato. L’Azul al paragone era così discreto che ti veniva da chiederti se i proprietari avessero mai visto anche solo una puntata di Miami Vice.
Affidai l’auto all’addetto al parcheggio in una piccola area lastricata di fronte al locale. Ci tengo alla mia macchina, ma ammetto che non faceva una gran figura davanti alla fila di Ferrari e Rolls-Royce. Comunque l’addetto non si rifiutò di parcheggiarla, anche se deve aver indovinato che non avrebbe ricevuto la mancia a cui era abituato. Suppongo che la mia camicia da bowling e i miei pantaloni color kaki testimoniassero senza ombra di dubbio che non avevo titoli al portatore o monete d’oro da rifilargli.
Il ristorante era così scuro e silenzioso che avresti potuto sentir cadere un’American Express Oro. Sulla parete opposta, in vetro fumé, una porta conduceva fuori in terrazza. E Deborah era lì, seduta a un tavolino d’angolo, che guardava il mare. Di fronte a lei, rivolto verso l’interno del locale, c’era Kyle Chutsky, l’uomo che avrebbe pagato il pranzo. Portava un paio di occhiali da sole molto costosi e quindi, forse, l’avrebbe fatto davvero. Mi avvicinai al tavolo e si materializzò un cameriere che mi tirò indietro una sedia, di certo troppo pesante per tutti quelli che potevano permettersi di mangiare lì. Di fatto il cameriere non fece un inchino, ma si vedeva che gli costava sforzo.
«Ehi, amico», esordì Kyle mentre mi sedevo. Mi porse la mano attraverso la tavola. Dato che sembravo essere diventato il suo nuovo amico, mi protesi verso di lui e gliela strinsi. «Come va la storia delle macchie?»
«Ho sempre un sacco di lavoro», risposi. «E come va la storia del misterioso visitatore da Washington?»
«Meglio di così», replicò. Mi tenne la mano nella sua per un po’. Abbassai lo sguardo; aveva le nocche appiattite, come se avesse passato troppo tempo ad allenarsi contro un muro di cemento. Batté la mano sinistra sul tavolo e io lanciai un’occhiata al suo anello da mignolo. Era stranamente effeminato, sembrava quasi un anello da fidanzamento. Quando finalmente mi lasciò andare, sorrise e si girò verso Deborah, anche se con quegli occhiali era impossibile dire se la stesse guardando.
Lei ricambiò il sorriso. «Dexter era in pena per me.»
«Naturale», fece Chutsky, «altrimenti a cosa servono i fratelli?»
Deborah mi guardò. «È quello che mi chiedo, a volte.»
«Be’… lo sai che ti faccio da guardaspalle, Deborah», replicai.
Kyle sghignazzò. «Ottimo. E io ti guardo il resto», aggiunse, ed entrambi risero. Lei si allungò in avanti e gli prese la mano.
«Tutta questa gioia e questi ormoni mi fanno saltare i nervi», dissi. «Raccontatemi un po’… qualcuno ha intenzione di catturare quel mostro disumano oppure dobbiamo continuare a starcene qui a fare battutine?»
Kyle si voltò verso di me e alzò un sopracciglio. «Amico, perché ti interessa questa storia?»
«Dexter ha una passione per i mostri disumani», intervenne Deborah. «Una specie di hobby.»
«Un hobby», ripeté Kyle, senza staccarmi gli occhiali di dosso. Immagino intendesse spaventarmi, ma per quello che ne so poteva anche avere gli occhi chiusi. In ogni caso, riuscii a non tremare.
«È un profiler dilettante», aggiunse Deborah.
Per un po’ Kyle rimase immobile e mi domandai se si fosse addormentato dietro le lenti scure. «Uh», borbottò infine, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Allora, che cosa ne pensi di quel tipo, Dexter?»
«Per ora ho solo gli elementi base», affermai. «Si tratta di qualcuno con una grande esperienza in campo medico e coinvolto in operazioni segrete. Ne esce schizzato e con il bisogno di dimostrare qualcosa, forse ha a che fare con l’America Centrale. Probabilmente programmerà la volta successiva non tanto perché non può farne a meno , ma in modo da avere la massima risonanza. Dunque non abbiamo a che fare con il classico serial… Come?»
Kyle aveva smesso di sorridere e si era drizzato sulla sedia, stringendo i pugni. «Che cosa intendi per America Centrale?»
Ero piuttosto sicuro che entrambi sapessimo che cosa intendevo, ma pensai che dire «Salvador» sarebbe stato davvero troppo; non volevo perdere le mie credenziali di profiler dilettante. Tuttavia l’unico scopo della mia venuta era scoprire qualcosa su Doakes e quando ti accorgi di avere una possibilità… Be’, ammetto che sarebbe stato un po’ scontato, ma a prima vista funzionava. «Oh», risposi. «Non ho detto bene?» Tutti gli anni di pratica nell’imitare gli esseri umani mi permisero di sfoggiare la mia migliore espressione di innocenza mista a curiosità.
Apparentemente Kyle non riusciva a stabilire se avessi detto bene oppure no. Strinse la mascella e aprì i pugni.
«Avrei dovuto avvisarti», osservò Deborah. «Lui è in gamba in queste cose.»
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