Jeff Lindsay - La mano sinistra di dio

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La mano sinistra di dio: краткое содержание, описание и аннотация

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Il collaboratore della polizia di Miami Dexter Morgan, esperto nell’esame delle macchie di sangue sulla scena del delitto, è un bell’uomo dotato di ironia e senso dell’umorismo. A prima vista potrebbe sembrare il fidanzato ideale per ogni brava ragazza. Eppure non lo è. Sotto questo aspetto esteriore cova, infatti, un istinto incontenibile a uccidere, per poi smembrare e dissanguare i cadaveri. Al contempo investigatore e serial chiller, Dexter ha la peculiare caratteristica di indirizzare la sua furia omicida esclusivamente su persone che se “lo meritano”.
Anche pubblicato come “Dexter il vendicatore”.

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Mi svegliai con un mal di testa che avrebbe potuto spaccare in due un melone. Mi sentivo come se avessi appena chiuso gli occhi, ma l’orologio sul comodino affermava che erano le cinque e quattordici.

Un altro sogno, un’altra chiamata in teleselezione dalla mia party line fantasma. Non c’era da stupirsi se per tutta la vita mi ero ostinatamente rifiutato di sognare. Era tutto così stupido, così inutile: simbologie evidenti, immagini puerili e assurdità fastidiose in una zuppa di angoscia incontrollabile. E il risultato era che non riuscivo più a dormire. Se i sogni erano proprio necessari, non potevano essere come me, diversi e interessanti?

Mi misi a sedere, massaggiandomi le tempie doloranti, mentre quel terribile e molesto stato di incoscienza svaniva gradualmente. Rimasi immobile, in stato confusionale. Che cosa mi stava capitando? E perché non capitava a qualcun altro?

Quel sogno sembrava differente, ma non avrei saputo dire perché, né cosa significasse. Il sogno precedente mi aveva lasciato la certezza che un altro delitto fosse stato commesso. Ma stavolta…

Sospirai e strascicai i piedi fino in cucina per bere un bicchier d’acqua. Quando aprii la porta del frigorifero la testina di Barbie fece tac tac. Rimasi a guardarla mentre sorseggiavo l’acqua dal bicchiere ricolmo. Gli occhietti azzurri mi fissavano spalancati.

Perché avevo sognato? Era solo frutto del mio subconscio, tormentato dalle tensioni della serata? Non mi sentivo mai teso, dopo un omicidio: di solito serviva a rilassarmi. Certo, prima di allora non ero mai stato così vicino a farmi prendere. Ma che bisogno c’era di sognarlo? Alcune immagini erano dolorosamente ovvie. Jaworski, Harry e il volto invisibile dell’uomo con il coltello. Sul serio: che me ne facevo di quel materiale da primo anno di psicologia? Che me ne facevo di un sogno? Non dovevo sognare, dovevo riposare. E invece mi ritrovavo in cucina a giocare con la Barbie. Feci rimbalzare di nuovo la testina: tac tac. E poi cosa c’entrava la Barbie? Che ruolo poteva avere nel mio tentativo di salvare la carriera di Deborah? Come potevo liberarmi di LaGuerta, se mi stava così appiccicata? E per l’amor del cielo, perché Rita doveva fare questo a me?

In quel momento tutto mi sembrava una soap opera deviata. Si stava cominciando a esagerare. Recuperai una confezione di aspirina e ne mandai giù tre di fila. Non feci caso al sapore. Le medicine di qualsiasi genere non mi erano mai piaciute.

Specie da quando era morto Harry.

16

La morte di Harry fu lenta e dolorosa. Una fine lunga e terribile, il primo e ultimo atto di egoismo della sua vita. Gli ci volle un anno e mezzo per morire, un po’ alla volta: scivolava nell’abisso per qualche settimana, poi lottava fino quasi a recuperare le forze, tenendoci tutti sulle spine. Era agli sgoccioli, stavolta, oppure se la sarebbe cavata una volta per tutte? Non si poteva mai sapere, ma trattandosi di Harry ci sembrava stupido doverci arrendere. Harry faceva sempre il suo dovere, ma come si applicava questo concetto alla morte? Era giusto continuare a lottare, prolungando la nostra sofferenza all’infinito, quando prima o poi la morte sarebbe arrivata in ogni caso? O era meglio lasciarsi andare senza opporre resistenza?

A diciannove anni di sicuro non conoscevo la risposta, anche se di morte ne sapevo ben di più dei miei tonti e foruncolosi compagni di studio alla University of Miami. Poi, un pomeriggio d’autunno, dopo una lezione di chimica, Deborah mi comparve davanti.

«Deborah», le dissi, credo piuttosto convincente nella mia interpretazione del bravo studente universitario, «andiamo a berci una Coca.» Harry mi aveva raccomandato di mescolarmi ai miei compagni e di bere Coca-Cola, mi sarebbe stato d’aiuto per passare per uno di loro e mi avrebbe permesso di studiare da vicino il comportamento umano. E, come sempre, aveva ragione. Rischio di carie a parte, imparavo un sacco di cose sulle sgradevoli consuetudini della specie.

Deborah, già troppo seria per i suoi diciassette anni, scosse il capo. «Riguarda papà», mormorò. E poco dopo eravamo in auto, diretti all’ospizio in cui lo avevano ricoverato. Non era una buona notizia: significava che i dottori avevano deciso che Harry era pronto per morire e lo invitavano a collaborare.

Harry non aveva un bell’aspetto. Era così verde e così immobile tra le lenzuola che pensai fossimo giunti troppo tardi. La lotta contro la malattia lo aveva lasciato smunto e rinsecchito, come se qualcosa lo stesse divorando dall’interno. Il rumore del respiratore accanto a lui faceva pensare a Darth Vader. Quel posto era una tomba per esseri viventi, visto che Harry, ufficialmente, non era ancora morto.

«Papà», gli disse Deborah. «Ti ho portato Dexter.»

Harry aprì gli occhi e ruotò la testa verso di noi, come se una mano invisibile gliel’avesse spinta dall’altro lato del cuscino. Ma gli occhi non erano i suoi. Erano cavità vacue e bluastre, disabitate. Il suo corpo poteva essere vivo, ma lui non era in casa.

«Non va bene», ci comunicò l’infermiera. «Stiamo cercando di farlo stare a suo agio.» E armeggiò con una grossa siringa, che riempì e sollevò in aria, spingendo lo stantuffo fino a farne uscire l’aria.

«… aspetti…» La voce era così flebile che per un attimo pensai venisse dal respiratore. Mi guardai intorno, finché vidi ciò che restava di Harry. Una debole scintilla animava il vuoto dei suoi occhi. «… aspetti…» ripeté, rivolto all’infermiera.

Lei non lo udì, o forse decise di ignorarlo. Gli si affiancò e gli sollevò delicatamente il braccio ossuto, passandogli sopra un batuffolo di cotone.

«… no…» sussurrò Harry, quasi impercettibilmente.

Guardai Deborah. Sembrava sull’attenti, in una perfetta posa di incertezza. Tornai a guardare Harry. I suoi occhi incrociarono i miei.

«… no…» ripeté. Ora nel suo sguardo c’era quasi una sfumatura di orrore. «… no… iniezione.»

Mi feci avanti e fermai l’infermiera con un gesto deciso, un attimo prima che conficcasse l’ago nella vena. «Aspetti», le dissi.

Lei mi guardò e, per un’infinitesima frazione di secondo, lessi nel suo volto qualcosa che mi lasciò di sasso. Era una rabbia gelida, una volontà disumana, come poteva concepirla il cervello di un rettile, la convinzione che il mondo fosse la sua riserva di caccia. Fu solo un lampo, ma ne ebbi la certezza: quella donna mi avrebbe volentieri cacciato l’ago in un occhio, solo per averla interrotta. Avrebbe voluto conficcarmelo nel petto e rigirarlo fino a farmi scoppiare le costole, fino a sentire il mio cuore che le esplodeva tra le mani, per potermi strizzare, spremere, strappare via la vita. Era un mostro, una cacciatrice, un’assassina. Una predatrice, un essere abietto e senz’anima.

Proprio come me.

Ma il suo sorriso smagliante tornò molto presto. «Che cosa c’è, tesoro?» disse con l’assoluta dolcezza della Perfetta Infermiera.

Mi sentivo la lingua troppo spessa per parlare e quando finalmente riuscii a farlo mi parve che fossero passati diversi minuti. «Non la vuole, l’iniezione.»

Lei sorrise di nuovo, un sorriso radioso dipinto sulla faccia, come la benedizione di un Dio onnisciente. «Il tuo papà è molto malato. Soffre molto.» Teneva la siringa sollevata e un raggio melodrammatico di sole fece brillare l’ago come se fosse il suo personale Santo Graal. «Ne ha bisogno.»

«Non la vuole», insistetti io.

«Sta soffrendo», ribadì lei.

Harry disse qualcosa che non riuscii a sentire. Fissavo l’infermiera, che a sua volta fissava me: due mostri che si contendevano lo stesso pezzo di carne. Senza distogliere lo sguardo da lei, mi chinai su Harry.

«… io… voglio… soffrire…» mormorò Harry, costringendomi a guardarlo. Dentro quel cranio, sotto una cresta di capelli rasati che d’improvviso sembravano troppo lunghi per la sua testa, Harry era tornato per aprirsi la strada con la forza tra la nebbia. Mi fece un cenno di assenso, tese la mano verso la mia e la strinse.

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