Scesi dalla mia auto e infilai il coltello e il nastro adesivo in una borsa da quattro soldi che mi ero portato dietro, preventivamente riempita con guanti di gomma da giardinaggio e qualche fotografia scaricata da Internet. Mi misi in spalla la borsa e mi incamminai silenzioso nella notte. Raggiunsi il pick-up. Il pianale e la cabina erano vuoti, a parte un mucchio di cartoni e bicchieri di plastica di Burger King e qualche pacchetto vuoto di Camel. Rifiuti da poco, come Jaworski.
Alzai lo sguardo. La luce della luna spuntava dalla sommità del mezzo condominio. Una brezza notturna mi alitava sul viso, portando con sé gli odori incantevoli del nostro paradiso tropicale: diesel, vegetazione putrefatta e cemento. Inspirai a fondo e tornai a concentrarmi su Jaworski.
Era da qualche parte, nel guscio dell’edificio. Non sapevo quanto tempo avessi a disposizione e una vocina dentro di me mi spronava a fare presto. Entrai a mia volta. Lo sentii appena ebbi varcato la soglia. O meglio, sentii uno strano suono metallico che doveva venire da lui, o da…
Mi fermai. Mi avvicinai a passi silenziosi alla fonte del rumore. C’era un tubo in alto sul muro, una conduttura elettrica. Appoggiai una mano sul tubo e lo sentii vibrare, come se all’interno si muovesse qualcosa.
Una lampadina mi si accese nella testa. Jaworski stava sfilando il filo elettrico. Il rame è costoso e alimenta un fiorente mercato nero. Era un’ulteriore entrata che gli permetteva di tirare a campare con il suo misero salario di bidello, tra una ragazza e l’altra. Da un carico di rame avrebbe potuto ricavare parecchie centinaia di dollari.
Ora che sapevo cosa stava combinando, un’idea cominciò a prendere forma. A giudicare dal rumore, doveva essere da qualche parte sopra di me. Avrei potuto localizzarlo facilmente, restare nell’ombra fino al momento giusto e poi scattare. Ma stavolta ero praticamente nudo, completamente esposto e assolutamente impreparato. Ero abituato a fare le cose in un certo modo. Fuori dai miei schemi, mi sentivo estremamente a disagio.
Un brivido mi attraversò la spina dorsale. Perché lo stavo facendo?
La risposta immediata era che io non stavo facendo niente. Era il mio amico, nell’oscurità del sedile posteriore, a fare tutto. Stavo lì solo perché dei due ero io quello che aveva la patente. Avevamo raggiunto un accordo, lui e io. Avevamo trovato un equilibrio, un modo di coesistere, grazie alla soluzione di Harry. Ma ora lui stava spingendomi fuori dalle linee che Harry aveva accuratamente tracciato col gessetto. Perché? Per rabbia? L’invasione della mia casa rappresentava un tale oltraggio da risvegliare la sua sete di vendetta?
Eppure non mi sembrava in preda alla rabbia. Come sempre era calmo, divertito e affamato di prede. Nemmeno io provavo rabbia. Mi sentivo piuttosto su di giri, sull’orlo dell’euforia. Galleggiavo su onde concentriche che assomigliavano a ciò che avevo sempre pensato potessero essere le emozioni. E tutto ciò mi aveva condotto in questo luogo sporco, rischioso e imprevisto, per fare sull’impulso del momento quello che tutte le altre volte avevo messo in atto solo dopo un’attenta preparazione. E, benché ne fossi consapevole, morivo dalla voglia di farlo. Dovevo farlo.
Molto bene. Ma non per questo dovevo agire senza l’abbigliamento adatto. In un angolo della stanza c’era un cumulo di lastre di pietra avviluppate da un telo di plastica. In men che non si dica, mi ritagliai un grembiule e una maschera, aprendo fessure per gli occhi, il naso e la bocca, in modo da vedere, respirare e rendere irriconoscibili i miei lineamenti. Anonimato perfetto. Può sembrare stupido, ma ero solito andare a caccia con indosso una maschera. E, a parte una pulsione nevrotica a fare tutto per bene , era semplicemente una cosa in meno di cui preoccuparmi. Mi faceva sentire più rilassato, pertanto era una buona idea. Presi i guanti dalla borsa e me li infilai. Ora ero pronto.
Trovai Jaworski due piani sopra, con un cumulo di cavo elettrico ai piedi. Mi tenni nell’ombra delle scale e lo osservai mentre tirava il filo. Riaprii la borsa. Con il nastro adesivo, appesi le fotografie alle pareti di cemento: dolci immagini di ragazze scomparse, in una varietà di pose tenere ed esplicite. Appena fosse uscito dalla stanza, Jaworski se le sarebbe trovate davanti.
Tornai a guardarlo. Jaworski estrasse un’altra ventina di metri di cavo, finché questo non si agganciò da qualche parte. Non ne usciva più. Jaworski lo strattonò due volte, inutilmente, poi prese un grosso paio di cesoie dalla tasca posteriore e lo tagliò. Raccolse il cavo e lo arrotolò intorno all’avambraccio. Poi venne verso le scale. Verso di me.
Mi nascosi nell’ombra e lo aspettai.
Jaworski non si preoccupava di non fare rumore. Non aveva previsto interruzioni e di sicuro non aveva previsto me. Sentii i suoi passi e il fruscio del filo elettrico che si tirava dietro. Sempre più vicino.
Oltrepassò la soglia senza accorgersi della mia presenza. E vide le fotografie.
« Uuuuf », fece, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Rimase a fissarle a bocca aperta, incapace di muoversi. E fu allora che gli arrivai alle spalle e gli appoggiai il coltello alla gola.
«Non muoverti, non aprire bocca», gli ordinammo.
«Ehi, senti…»
Ruotai lievemente il polso e gli spinsi la punta del coltello nella pelle. Emise un sibilo mentre uno spiacevole schizzo di sangue gli colava sotto il mento. Tutto così inutile: perché la gente non dà mai retta?
«Ti ho detto di non aprire bocca», ribadii.
Dopo di che gli unici rumori furono lo srotolarsi del nastro adesivo, il respiro di Jaworski e la risata sommessa del Passeggero Oscuro. Gli tappai la bocca, gli legai i polsi con il suo prezioso cavo elettrico e lo trascinai verso un altro cumulo di lastre di pietra avvolte nella plastica. In pochi minuti era immobilizzato sul tavolo operatorio di fortuna.
«Parliamo», dicemmo, con la voce cortese del Passeggero. Jaworski non sapeva che gli sarebbe stato permesso di parlare, anche perché il nastro adesivo glielo impediva. Perciò rimase zitto.
«Parliamo delle ragazze scomparse», dicemmo, strappandogli il nastro adesivo dalla bocca.
« Aaahi ! Che… che vuoi dire?» Ma non suonava molto convincente.
«Credo tu lo sappia.»
«N-no.»
«S-sì.»
Dovevo aver detto una parola di troppo. Ero fuori tempo, tutta la sera era fuori squadra. Lui alzò lo sguardo verso la mia faccia lucente di plastica. «Che cosa sei, uno sbirro?»
«No», dicemmo, tagliandogli l’orecchio sinistro. Era quello più vicino. Il coltello era molto affilato e per un attimo Jaworski stentò a credere che stesse accadendo proprio a lui. Per sempre senza l’orecchio sinistro. Perciò gli appoggiai l’orecchio sul petto, perché si convincesse. Sgranò gli occhi e si riempi i polmoni per urlare, ma io gli ficcai in bocca per tempo un pezzo di plastica.
«Non lo fare. Possono capitarti cose peggiori.» E gli sarebbero capitate senz’altro, ma non era ancora opportuno che lo sapesse. «Le ragazze scomparse?» ripetemmo, con voce gelida e gentile. Aspettammo solo un istante, guardandolo negli occhi, per essere sicuri che non avrebbe urlato, prima di togliergli il bavaglio.
«Gesù», mormorò con voce sofferta, «il mio orecchio…»
«Ne hai un altro uguale. Vogliamo sapere delle ragazze.»
«Vogliamo? Come sarebbe vogliamo ? Gesù, che male», gemette.
Certa gente proprio non capisce. Gli rimisi in bocca la plastica e tornai all’opera.
Mi lasciai quasi trasportare: era relativamente facile, date le circostanze. Il mio cuore batteva all’impazzata e dovevo controllarmi per mantenere salde le mani. Ma continuai il lavoro, esplorando, cercando qualcosa che avevo sempre avuto sulla punta delle dita. Eccitante… e terribilmente frustrante. La pressione saliva dentro me, fino alle orecchie, in cerca di uno sfogo che non venne. Solo la sensazione che mi sfuggisse qualcosa di meraviglioso. Se lo avessi trovato, mi ci sarei potuto tuffare dentro, ma non ci riuscivo. E i miei vecchi schemi non mi procuravano alcuna gioia. Che cosa fare? Nella confusione, aprii una vena e un’orribile pozza di sangue si formò sulla plastica, accanto al corpo di Jaworski. Mi fermai un attimo, in cerca di una risposta, senza trovarla. Mi voltai verso il rettangolo di una finestra. Quasi mi dimenticai di respirare.
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