«Mi piacerebbe molto rimanere qui e arrostire un paio di costolette» disse Vinnie «ma devo proprio tornare in ufficio.»
«Già, e io mi sto perdendo Hollywood Squares » si lamentò il Luna. «Bisogna che concludiamo le nostre faccende, piccola.»
Erano quasi le quattro quando presi gli ultimi accordi perché la macchina fosse portata via. Ero riuscita a mettere in salvo il cerchione di una ruota e questo era tutto. Mi trovavo nel parcheggio a rovistare nella mia borsa a tracolla per cercare il cellulare quando la Lincoln nera mi si avvicinò.
«Davvero una gran sfortuna con la macchina» disse Mitchell.
«Ormai ci sto facendo l’abitudine. Mi è già capitato un sacco di volte.»
«Lo abbiamo visto da lontano e abbiamo immaginato che avessi bisogno di un passaggio.»
«Per la verità ho appena chiamato un amico e mi sta venendo a prendere.»
«Questa è una menzogna grande come una casa» disse Mitchell. «Sei rimasta qui per un’ora e non hai telefonato a nessuno. Scommetto che tua madre non sarebbe contenta di sapere che dici le bugie.»
«Sempre più contenta di sapere che salgo in macchina con voi» dissi. «Le verrebbe un infarto.»
Mitchell annuì. «Hai vinto la partita.» Il finestrino di vetro scuro scivolò e si chiuse, e la Lincoln uscì dal parcheggio. Trovai il telefono e chiamai Lula in ufficio.
«Accidenti, se avessi una monetina per ogni macchina che hai distrutto potrei andare in pensione» disse Lula quando venne a prendermi.
«Non è stata colpa mia.»
«Diavolo, non è mai colpa tua. È una di quelle faccende del karma. Quando si tratta di automobili tu stai al livello dieci del misuratore di sfiga.»
«Immagino che tu non abbia notizie di Ranger?»
«Tutto quello che so è che Vinnie ha passato l’incarico a Joyce.»
«Era contenta?»
«Ha avuto un orgasmo su due piedi lì in ufficio. Connie e io abbiamo dovuto chiedere il permesso di uscire per andare a vomitare.»
Joyce Barnhardt è una specie di fungo velenoso. Quando eravamo all’asilo insieme aveva l’abitudine di sputare nella mia confezione di latte. Alla scuola superiore metteva in giro pettegolezzi sul mio conto e scattava foto di nascosto nello spogliatoio femminile. E prima ancora che l’inchiostro si fosse asciugato sul mio certificato di matrimonio, la trovai col sedere di fuori sul tavolo nuovo di zecca della mia sala da pranzo, insieme a mio marito (ora ex marito).
Dire fungo velenoso era ancora troppo poco per Joyce Barnhardt.
«E poi è successa una cosa buffa all’automobile di Joyce» disse Lula. «Mentre lei era in ufficio a parlare con Vinnie, qualcuno le ha conficcato un cacciavite nello pneumatico.»
Sollevai le sopracciglia.
«Sia fatta la volontà di Dio» disse Lula mettendo in moto la Firebird rossa e alzando il volume dello stereo così forte che avrebbe potuto farci saltare le otturazioni dei denti.
Prese la North Clinton fino a Lincoln e poi la Chambers. Quando mi fece scendere nel cortile di casa non c’era segno di Mitchell è Habib.
«Cerchi qualcuno?» volle sapere.
«Due tizi su una Lincoln nera mi stavano seguendo, oggi: speravano che avrei trovato Ranger al posto loro. Adesso però non li vedo.»
«C’è un sacco di gente che cerca Ranger.»
«Pensi che abbia ucciso Homer Ramos?»
«Ce lo vedrei anche a uccidere Ramos, ma non lo vedrei affatto a dar fuoco a un palazzo. E non ce lo vedo a essere stupido.»
«Come per esempio a farsi riprendere da una telecamera dell’impianto di sicurezza.»
«Ranger doveva sapere dove si trovavano le telecamere. Quel palazzo è di proprietà di Alexander Ramos, e Ramos non va in giro lasciando aperto il coperchio dei barattoli: ha degli uffici in quel palazzo. Lo so perché una volta ho fatto un servizio a domicilio, là, quando esercitavo la mia precedente professione.»
La precedente professione di Lula era stata la prostituzione, perciò non chiesi altri dettagli sul servizio a domicilio.
Salutai Lula e mi fiondai attraverso la doppia porta a vetri che introduceva nel piccolo atrio del palazzo dove abitavo. Il mio appartamento era al secondo piano e potevo scegliere tra le scale e l’ascensore. Quel giorno scelsi l’ascensore, sfinita com’ero dall’aver visto bruciare la mia automobile.
Entrai in casa, appesi la borsa e la giacca e diedi una sbirciatina per vedere come stava il mio criceto, Rex. Correva sulla ruota nella sua gabbia, le zampette erano una sfuocata scia rosa sullo sfondo della plastica rossa.
«Ehi, Rex» dissi. «Come vanno le cose?»
Lui si fermò un momento, con i baffi che vibravano e gli occhi brillanti, in attesa che il cibo gli piovesse dal cielo. Gli diedi un chicco di uva passa dalla scatola nel frigorifero e gli raccontai dell’auto. Lui immagazzinò il chicco d’uva dentro la guancia e ritornò a correre. Fossi stata al suo posto avrei mangiato subito il chicco d’uva e optato per un pisolino. Non riesco a capire questa faccenda di correre per il gusto di farlo: solo se mi inseguisse un serial killer che mutila le sue vittime mi metterei davvero a correre.
Controllai la segreteria telefonica: c’era un messaggio. Senza parole, solo un respiro. Speravo che fosse il respiro di Ranger. Lo riascoltai. Il respiro sembrava normale: non era un ansimare perverso, e neppure un respiro calcolato a mente fredda. Avrebbe potuto essere di un piazzista telefonico.
Avevo ancora un paio d’ore prima che il pollo arrivasse, perciò attraversai il corridoio e bussai alla porta del mio vicino.
«Che cosa c’è?» strillò il signor Wolesky per sovrastare il boato del televisore.
«Mi chiedevo se poteva prestarmi il suo giornale. Mi è capitato un brutto inghippo con l’automobile e credo che dovrei dare un’occhiata alla sezione auto usate negli annunci.»
«Ancora?»
«Non è stata colpa mia.»
Lui mi passò il giornale. «Se fossi in te darei un’occhiata piuttosto alla liquidazione di eccedenze militari. Sarebbe meglio che tu guidassi un carrarmato.»
Mi portai il giornale a casa e lessi gli annunci delle auto e le barzellette. Stavo riflettendo sul mio oroscopo quando il telefono squillò.
«Tua nonna è lì?» domandò mia madre.
«No.»
«Ha avuto un bisticcio con tuo padre e se n’è andata di sopra nella sua stanza pestando i piedi. E un attimo dopo l’ho vista uscire e salire su un taxi!»
«Forse è andata a trovare una delle sue amiche.»
«Ho già provato da Betty Szajak e Emma Getz ma non l’hanno vista.»
Suonarono alla porta e il cuore smise di battermi in petto. Guardai dallo spioncino. Era nonna Mazur.
«È qui!» sussurrai a mia madre.
«Grazie a Dio» disse lei.
«No. Non grazie a Dio. Ha una valigia!»
«Forse ha bisogno di prendersi un po’ di vacanza da tuo padre.»
«Non può venire a vivere qui!»
«Be’, certo che no… ma forse potrebbe stare da te per un giorno o due, finché le acque non si sono calmate.»
«No! No, no, no.»
Il campanello della porta suonò di nuovo.
«Sta suonando» dissi a mia madre. «Cosa devo fare?»
«Per l’amor del cielo, falla entrare.»
«Se le apro sono condannata. È come invitare un vampiro a entrare in casa. Una volta che li hai fatti accomodare è fatta, sei bell’e morto!»
«Non si tratta di un vampiro. È tua nonna.»
La nonna bussò energicamente alla porta. «Ehilà?» gridò.
Riagganciai il telefono e aprii la porta.
«Sorpresa» disse la nonna. «Sono venuta a stare da te per un po’, intanto che cerco un appartamento.»
«Ma tu vivi con mamma.»
«Non più. Tuo padre è un buono a nulla.» Trascinò dentro la valigia e appese il cappotto a un gancio del muro. «Andrò a vivere da sola. Sono stufa di guardare gli spettacoli televisivi che sceglie tuo padre, perciò starò qui finché avrò trovato qualcosa. So che non ti dispiace se mi trasferisco per un po’.»
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