A queste parole Erast Petrovič avvampò e guardò in tralice Lizanka che però, si vede, era abituata da tempo al curioso modo di esprimersi della sua duenna, e guardava alle cose in modo altrettanto fiducioso e radioso.
«E il pince-nez l’aveva? Magari non sul naso, gli spuntava dal taschino? Con un nastrino di seta?» chiese Fandorin incalzando di domande. «E non avete avuto l’impressione che fosse un po’ gobbo? Ancora una cosa. So che portava la finanziera, ma non c’era nulla nel suo aspetto che tradisse lo studente — i calzoni dell’uniforme, per esempio? Non li avete notati?»
«Io noto sempre tutto», rispose con sussiego la tedesca. «I calzoni erano pantaloni a quadretti di ottima lana. Il pince-nez non l’afeva affatto. Non era affatto gobbo. Quel signore aveva un bel portamento.»S’impensierì e poi chiese inaspettatamente a sua volta: «Un po’ gobbo, pince-nez e studente? Perché dite così?»
«Perché me lo chiedete?» domandò guardingo Erast Petrovič.
«Strano. Lì c’era un signore. Uno studente gobbo col pince-nez.»
«Come! Dove!?» esclamò Erast Petrovič.
«Un signore così io l’ho visto… jenseits… dall’altra parte della cancellata, sulla strada. Stafa lì e ci guartava. Ho anche pensato che a quel punto il signor studente ci avrebbe aiutate a mandar via quell’uomo orribile. Ed era molto gobbo. Questo l’ho visto dopo, dopo che l’altro signore si era già ucciso. Lo studente si è voltato e se ne è andato via velocissimo. In quel momento ho visto quanto era gobbo. Questo succede quando non si insegna ai bambini a star seduti composti fin da piccoli. Stare seduti nella posizione ciusta è molto importante. Le mie allieve stanno sempre sedute nel modo giusto. Guardate la Fräulein baronessa. Vedete come tiene la spina dorsale? È molto pello!»
A questo punto Elizaveta Aleksandrovna arrossì, ma con tanta grazia che Fandorin perse per un attimo il filo, sebbene le informazioni della signorina Pful fossero indubbiamente di un’importanza eccezionale.
ove si narra della forza rovinosa della bellezza
L’indomani alle undici del mattino Erast Petrovič, accompagnato dalla benedizione del suo superiore e perfino provvisto di tre rubli per le spese straordinarie, si recò all’edificio giallo dell’Università in via Mochovaja. Il compito non si presentava difficile, ma tale da richiedere una certa fortuna: individuare uno studente gobbo, di nessuna eminenza e un po’ brufoloso con il pince-nez legato a un nastrino di seta. Era pienamente verosimile che questo dubbio signore non studiasse affatto in via Mochovaja, ma all’Istituto tecnico superiore, all’Accademia forestale oppure in un qualsiasi altro istituto per geometri, tuttavia Ksaverij Feofilaktovič (che aveva preso a considerare il suo giovane aiutante con un certo stupore non privo di gioia) concordava completamente con la supposizione di Fandorin: la cosa più verosimile era che «il gobbo», non diversamente dal defunto Kokorin, studiasse all’università e molto probabilmente alla stessa facoltà, giurisprudenza.
Vestito in borghese, Erast Petrovič volò a rotta di collo su per i consunti scalini in ghisa dell’ingresso principale, oltrepassò un custode barbuto in livrea verde e occupò una comoda postazione nel vano semicircolare di una finestra da cui poteva sorvegliare benissimo sia l’atrio e il guardaroba sia la porta e perfino gli ingressi di entrambi gli annessi. Per la prima volta da quando gli era morto il padre e la sua giovane vita aveva deviato da un percorso chiaro e diritto, Erast Petrovič guardava le sacre mura gialle dell’università senza provare in cuore la nostalgia di quanto avrebbe potuto realizzarsi, ma non si era tuttavia realizzato. Non sappiamo ancora quale esistenza sia la più utile e interessante per la società, se l’apprendimento meccanico dello studente oppure la vita severa di un investigatore impegnato in un’inchiesta importante e pericolosa. (D’accordo, magari non pericolosa, ma comunque di una responsabilità straordinaria e segreta. )
All’incirca uno ogni quattro studenti entrati nella visuale del nostro attentissimo osservatore portava il pince-nez, molti per di più proprio con il nastrino di seta. All’incirca uno ogni cinque aveva un certo numero di brufoli in faccia. E non mancavano quelli un po’ gobbi. Eppure non c’era verso che tutti e tre questi segni particolari si degnassero di combinarsi in un unico studente.
Alle due Fandorin, che cominciava ad avvertire i morsi della fame, si tolse di tasca un panino al salame e si rifocillò senza lasciare il suo posto di guardia. Nel frattempo si era stabilito un rapporto davvero benevolo fra Erast Petrovič e il custode barbuto, che gli aveva detto di chiamarsi Mitric ed era riuscito a dargli alcuni consigli preziosissimi a proposito dell’iscrizione all’Università. Fandorin, che si era spacciato con il loquace vecchietto per un provinciale aspirante ai mitici bottoni con lo stemma universitario, si stava già chiedendo se non fosse ora di mutare versione e interrogare direttamente Mitric a proposito del «gobbo» brufoloso, quando il custode riprese ad affaccendarsi, si tolse il berretto a visiera e spalancò il portone. Mitric metteva in pratica tale procedura al passaggio di un professore o di uno degli studenti più ricchi, ricevendone in cambio di tanto in tanto ora un copeco, ora addirittura cinque. Erast Petrovič si girò e vide avvicinarsi all’uscita uno studente che aveva appena ritirato dal guardaroba un sontuoso soprabito di velluto con gli alamari a forma di zampa di leone. Sul naso dell’elegantone luccicava il pince-nez, e sulla fronte gli rosseggiava una galassia di brufoli. Fandorin si sporse pure nel tentativo di vedere bene quale fosse il portamento dello studente, ma la maledetta mantellina del soprabito e il colletto alzato impedivano di pronunciare una diagnosi.
«Buona sera, Nikolaj Stepanyč. Vi chiamo il vetturino?» propose il custode con un inchino.
«Ebbene, Mitric, non ha ancora smesso di piovigginare?» chiese il brufoloso con una vocetta sottile. «Allora vado a piedi, seduto ci sono stato anche troppo.»E con due dita biancoguantate lasciò cadere una monetina nella mano tesa.
«E quello chi è?» chiese con un sussurro Erast Petrovič guardando con attenzione spasmodica la schiena del bellimbusto. Non è un po’ gobbo?
«Achtyrzev Nikolaj Stepanyč. Un riccone di prima classe, di sangue principesco», gli comunicò deferentemente Mitric. «Non mi getta mai meno di quindici copechi.»
Notizia che rese Fandorin febbricitante. Achtyrzev! Non sarà mica quello indicato nelle ultime volontà come esecutore testamentario!
Mitric si inchinò all’ennesimo insegnante, un docente di fisica coi capelli lunghi, e quando si rigirò, lo attendeva una sorpresa: il rispettoso provinciale era sparito come se l’avesse inghiottito la terra.
Il nero soprabito di velluto era visibile da lontano, e Fandorin raggiunse in due secondi il suo sospetto, senza decidersi però a chiamarlo: che pretese avrebbe mai potuto avanzare verso questo Achtyrzev? Mettiamo pure che lo riconoscessero il commesso Kukin, e anche la signorina Pful (qui Erast Petrovič sospirò gravemente ricordandosi, per l’ennesima volta, di Lizanka). E con questo? Non sarebbe stato meglio, in base alla teoria del grande Fouché, imbattibile corifeo degli investigatori, attuare il pedinamento dell’oggetto in questione?
Detto fatto. Tanto più che pedinarlo si rivelò tutt’altro che difficile: senza la minima fretta Achtyrzev, a passo di diporto, procedeva in direzione di via Tverskaja senza mai voltarsi indietro, solo di tanto in tanto accompagnava con lo sguardo certe graziose midinette. Alcune volte Erast Petrovič, imbaldanzitosi, si era fatto inavvertitamente così vicino allo studente da sentirlo fischiettare l’aria di Smith da La bella di Perth. A quanto pareva il mancato suicida (se davvero era lui) si trovava nel più allegro degli umori. Vicino alla tabaccheria Korf lo studente si fermò ed esaminò a lungo la vetrina con le scatole di sigari, senza però entrare. In Fandorin cominciò a farsi strada la convinzione che il suo «oggetto» volesse ammazzare il tempo fino a una certa ora. Convinzione che si rafforzò allorché Achtyrzev estrasse l’orologio d’oro, ne aprì il coperchio con uno scatto e, accelerando sensibilmente il passo, salì sul marciapiede passando all’esecuzione del più deciso «Coro dei fanciulli» della Carmen, opera allora di moda.
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