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Boris Akunin: La Regina d'Inverno

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Boris Akunin La Regina d'Inverno

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Mosca, 1876: in un parco affollato, un giovane si spara davanti agli occhi di una ragazza che poco prima gli aveva rifiutato un bacio. И solo il primo di un'inquietante catena di suicidi apparentemente inspiegabili. Dietro quei gesti tanto assurdi si nasconde forse un intrigo internazionale, ordito al di fuori della madre Russia? A indagare sul caso и Erast Fandorin, investigatore alle prime armi pieno di entusiasmo e acume. La pista che segue lo condurrа ai quattro angoli della Terra, in una serie di avventure rocambolesche che approderanno a una veritа sconvolgente e imprevedibile. Con Fandorin nasce una indimenticabile figura di detective in grado di rivaleggiare con «classici» quali Poirot, Sherlock Holmes e Montalbano.

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La conversazione con la testimone non fu delle più consolanti. Erast Petrovič aveva trovato la signora proprio per un pelo, mentre già si accingeva a montare su un calesse stracarico di bauli e involti per trasferirsi dalla vecchia capitale nelle terre avite del governatorato di Kaluga. Per economizzare la Spyzyna viaggiava all’antica, non in treno, ma con certi suoi cavallucci.

In questo Fandorin ebbe indubbiamente fortuna, perché se la signora avesse avuto fretta di raggiungere la stazione, addio conversazione. Ma il succo della chiacchierata con la loquace testimone, che Erast Petrovič affrontò da un verso e dall’altro, si riduceva a questo soltanto: Ksaverij Feofìlaktovič aveva ragione, la Spizyna aveva visto proprio Kokorin; si ricordava della finanziera, e anche del cappello tondo, e perfino delle scarpe di pelle lucida con i bottoni, di cui nessuno dei testimoni dei giardini di Sant’Alessandro aveva fatto menzione.

Non restava che sperare in Kukin, in relazione al quale Grušin, molto probabilmente, si sarebbe dimostrato ancora una volta nel giusto. Il commesso aveva cianciato senza pensare, e adesso per colpa sua gli toccava attraversare tutta Mosca, esponendosi alle risate del commissario.

La drogheria Brykin e figli affacciava direttamente sul lungofiume con una porta di vetro su cui era raffigurato un pan di zucchero; da lì il ponte si vedeva come ad averlo sul palmo di mano, questo Fandorin lo notò subito. Notò anche che le finestre del negozio erano spalancate (evidentemente per il caldo soffocante), e magari Kukin aveva potuto udire anche lo «scatto metallico», dopotutto da lì fino al più vicino pilone in pietra non c’erano più di quindici passi. Dalla porta si affacciò con aria incuriosita un uomo sulla quarantina con una camicia rossa, un gilet nero di panno, pantaloni di fustagno e stivali a collo di bottiglia.

«Vi serve qualcosa, eccellenza?» gli chiese. «Non avrà mica perso la strada?»

«Kukin», gli domandò severamente Erast Petrovič, che dalle spiegazioni imminenti non si aspettava niente di confortante.

«Ai vostri ordini», gli rispose guardingo il commesso sollevando le folte sopracciglia, ma indovinò subito. «Voi, eccellenza, magari siete della polizia? Ve ne sono molto riconoscente. Non mi aspettavo di ricevere da voi un’attenzione così tempestiva. Il signor poliziotto alla stazione di polizia ha detto che i superiori avrebbero preso in esame la faccenda, ma non me l’aspettavo, non me l’aspettavo davvero. Ma cosa stiamo qui sull’ingresso! Vogliate favorire in negozio. Le sono così grato, ma così grato.»

Fece un inchino, e aprì la porta, e fece anche un gesto di invito col braccio, pregandolo di entrare, ma Fandorin non si mosse dal suo posto. Disse in modo autorevole: «Io, Kukin, non vengo dalla stazione di polizia, ma dalla polizia investigativa. Ho l’incarico di cercare lo stu… l’uomo di cui avete informato il sorvegliante della stazione».

«Lo studente?» suggerì con prontezza il commesso. «Come no, me lo ricordo benissimo. Mi ha fatto una paura, lo perdoni il Signore. Non appena l’ho visto in piedi sul pilone, con l’arma puntata alla testa, mi sono sentito gelare il sangue. Ecco fatto, ho pensato, risiamo all’anno scorso, qui non ci verrà più nessuno nemmeno per tutto l’oro del mondo. E che colpa ne ho io? Cosa ci trovano lì, da venire ad ammazzarcisi, neppure ci avessero spalmato il miele. Se ne fosse almeno andato sulla Moscova, lì è più profondo, e anche il ponte è più alto, e poi…»

«Chetatevi, Kukin», lo interruppe Erast Petrovič. «Descrivetemi piuttosto lo studente. Cosa indossava, che aspetto aveva e in base a cosa avete deciso che si trattava proprio di uno studente.»

«E come faceva a non essere uno studente, tutto il suo aspetto, vostra eccellenza», disse stupito il commesso. «Aveva l’uniforme, e i bottoni, e le lenti sul naso.»

«Come sarebbe a dire l’uniforme?» saltò su Fandorin. «Indossava forse l’uniforme?»

«E come poteva essere altrimenti?» disse Kukin guardando con commiserazione l’inconcludente funzionario. «Sennò come facevo a capire che era uno studente? Cosa crede, che non sappia distinguere dall’uniforme uno studente da un piccolo ufficiale?»

A questa giusta osservazione Erast Petrovič non aveva nulla da obiettare, così prese di tasca il suo bel bloc-notes con la matita per annotare la testimonianza. Il bloc-notes Fandorin lo aveva acquistato prima di entrare in servizio all’Investigativo, se lo era portato dietro per tre settimane senza mai usarlo, ed ecco che adesso finalmente gli tornava utile: in una sola mattina aveva già riempito alcune paginette con la sua calligrafia minuta.

«Raccontatemi che aspetto aveva l’uomo.»

«Un uomo come tanti. Nulla di rimarchevole, un po’ brufoloso in faccia. Quelle lenti, ripeto…»

«Che genere di lenti, occhiali o pince-nez?»

«Quelle col nastrino.»

«Pince-nez, allora», sfregò con la matita Fandorin. «Altri segni particolari?»

«Era piuttosto curvo. Le spalle manca poco gli arrivavano sopra il cocuzzolo… Per il resto, ve l’ho detto, era uno studente come tanti…»

Kukin guardò perplesso il «piccolo ufficiale», che rimase a lungo in silenzio, socchiudeva gli occhi, muoveva le labbra, faceva frusciare le pagine del suo quadernetto. Il tipo doveva avere qualcosa in mente.

«L’uniforme, brufoloso, il pince-nez, piuttosto curvo», aveva scritto nel bloc-notes. «Be’, un po’ brufoloso; questa è una sciocchezza. Nell’elenco degli effetti personali di Kokorin non viene nominato nessun pince-nez. Che gli sia caduto? Possibile. Nemmeno i testimoni parlano di pince-nez, ma non li hanno interrogati specificamente sull’aspetto del suicida; e a che scopo poi? Curvo? Mmmm. Nelle Notizie di Mosca, a quanto ricordo, si parla di un ‘giovane aitante’, però il reporter non ha presenziato agli eventi, Kokorin non l’ha visto, così potrebbe essersi inventato il ‘baldo giovane’ per l’effetto. Resta l’uniforme da studente, questa è inconfutabile. Se quello sul ponte era davvero Kokorin, viene fuori che nell’intervallo di tempo fra le undici e mezzogiorno e mezzo si è messo la finanziera per un suo qual che motivo. E cosa c’è da notare? Che dalla Jauza fino alla via Ostoženka e poi di nuovo alla ‘Società assicuratrice antincendi di Mosca’ il cammino non è breve, in mezz’ora non ce la si fa.»

A quel punto Fandorin comprese, non senza un crampo allo stomaco, che gli restava una sola via d’uscita: prendere il commesso Kukin per la collottola, trascinarlo al comando di polizia di via Mochovaja, all’obitorio, dove, sotto ghiaccio, giaceva tuttora il cadavere del suicida, e richiederne l’identificazione. Erast Petrovič si raffigurò il cranio disfatto con la crosta di sangue e cervello secco, e per una associazione di idee del tutto naturale si ricordò della Krupnova, la moglie di un commerciante che era stata assassinata e continuava a visitarlo nei suoi incubi. No, non aveva proprio nessuna voglia di andare nella «ghiacciaia». Ma fra lo studente del ponte Malyj Jayzskij e il suicida dei giardini di Sant’Alessandro un legame c’era, e andava chiarito al più presto. Chi avrebbe potuto dirgli se Kokorin era brufoloso e gobbo, se portava il pince-nez?

Tanto per cominciare la signora Spizyna, che però, con tutta probabilità, doveva avere già raggiunto la regione di Kaluga. Poi il cameriere del defunto, come diavolo si chiamava? Non importa, l’investigatore lo aveva comunque tirato fuori dall’appartamento, e adesso vallo a cercare… Restavano i testimoni dei giardini di Sant’Alessandro, e prima di tutto quelle due signore con cui Kokorin aveva parlato negli ultimi istanti della sua vita, loro molto probabilmente lo avevano esaminato in ogni particolare. Ecco cosa aveva annotato nel bloc-notes: «Eliz. Aleksandrna von Evert-Kolokolzev, anni 17, figlia di consigliere titolare, signorina Emma Gottlibovna Pful, anni 48. Via Malaja Nikitskaja, casa privata».

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