Il capo non si vedeva da nessuna parte. In compenso la sua piccola Herstal nera poggiava contro il muro. Fandorin, così com’era a quattro zampe, ci balzò su come un gatto, l’afferrò e girò la testa da ogni parte.
Ma Brilling era scomparso.
Erast Petrovič pensò a guardare in alto solo dopo avere udito un rantolo stentato.
Ivan Franzevič" stava sospeso per aria nel più assurdo e innaturale dei modi. Le sue scarpe lucide oscillavano appena sopra la testa di Fandorin. Da sotto la croce di San Vladimiro, da dove sulla camicia inamidata gli si allargava una macchia cremisi, spuntava l’aguzzo ramo rotto che aveva trapassato il generale di nuova nomina. La cosa più spaventosa di tutte era lo sguardo degli occhi chiari, puntato direttamente su Fandorin.
«Che schifo…»pronunciò il capo distintamente, facendo smorfie non si capiva se di dolore o di ribrezzo. «Che schifo…»E con voce roca, irriconoscibile, esalò l’ultimo respiro. «Azazel…»
Un’onda di ghiaccio attraversò il corpo di Fandorin, intanto Brilling continuò a rantolare per un mezzo minuto ancora dopodiché tacque.
Quasi avessero atteso questo istante, da dietro l’angolo si udì un battere di zoccoli, un cigolio di ruote. Stava arrivando la carrozza con i gendarmi.
L’aiutante generale Lavrentij Arkadevič Mizinov, capo della Terza sezione e capo del corpo dei gendarmi, si stropicciò gli occhi arrossati dalla stanchezza. Le cordelline dorate sull’uniforme da parata tintinnavano sordamente. Nelle ultime ventiquattr’ore non c’era stato il tempo di cambiarsi, quanto a dormire un po’, meno che mai. La sera prima un corriere aveva portato Lavrentij Arkadevič via dal ballo per l’onomastico del granduca Sergej Aleksandrovič. Ed era cominciato tutto…
Il generale lanciò un’occhiata poco amichevole al ragazzino seduto di sbieco, coi capelli arruffati e il naso graffiato ficcato in certe carte. Non aveva dormito per due notti, ma era fresco come un fringuello. E si comportava come se si trovasse da tutta una vita negli uffici supremi. Bene, pratichi pure le sue stregonerie. Certo quel Brilling! Di questo proprio non vuole farsene una ragione!
«Allora, Fandorin, ce n’è ancora per molto? O vi siete lasciati prendere ancora una volta da una delle vostre ‘idee’?» gli chiese severamente il generale, sentendo che dopo una notte insonne e una giornata sfinente lui non avrebbe più potuto avere nessuna idea nuova.
«Un momento, eccellenza illustrissima, un momento», borbottò lo sbarbatello. «Ci sono altre cinque annotazioni. Vi avevo avvertito dopotutto che l’elenco poteva essere stato cifrato. Vedete, che codice astuto, metà delle lettere non si indovinano, e poi nemmeno riesco a ricordarmi di tutti quelli che erano lì… Aha, questo è il direttore delle poste di Danimarca, ecco chi è. Bene, e qui chi abbiamo? La prima lettera non è decifrata — una crocetta, la seconda una crocetta pure quella, la terza e la quarta — due M poi ancora una crocetta, poi N, poi D con segno interrogativo, e le ultime due mancano. Viene fuori ++MM+ND(?)++.»
«Quante sciocchezze!» sospirò Lavrentij Arkadevič. «Fosse qui Brilling avrebbe risolto tutto in due secondi. Così siete convinto che non si sia trattato di un attacco di follia? È difficile immaginarsi che…»
«Ne sono convinto senza ombra di dubbio, vostra eccellenza illustrissima», ripetè per l’ennesima volta Erast Petrovič. «E l’ho udito pronunciare distintamente ‘Azazel’. Ferma! Mi sono ricordato! Nell’elenco della Bežezkaja c’era un commander. Suppongo sia lui.»
«‘Commander’ è un rango delle flotte britannica e americana», gli spiegò il generale. «Corrisponde al nostro capitano di secondo grado.»Prese a passeggiare irosamente in lungo e in largo per la stanza. «Azazel, Azazel, che vorrà mai dire questa storia di Azazel! Ora vien fuori che non ne sapevamo un bel niente! L’inchiesta moscovita di Brilling non vale un fico secco! Era una sciocchezza, una messinscena, un mucchio di balle — sia i terroristi, che l’attentato al principe ereditario! E allora ci ha messi su una falsa strada? Ci ha rifilato qualche morto? O ci ha rifilato davvero qualche imbecille di nichilista? E anche questo è possibile, era un uomo molto, molto efficiente… Maledizione, ma dove sono i risultati della perquisizione? Ci hanno già messo più di ventiquattr’ore!»
La porta si aprì pian pianino, nell’apertura si affacciò una fisionomia smunta, emaciata, con gli occhiali d’oro. «Vostra eccellenza illustrissima, il capitano Belozerov.»
«Finalmente! Lupus in fabula! Fatelo entrare.»Nel gabinetto, socchiudendo stancamente gli occhi, entrò un ufficiale dei gendarmi non più giovane, che Erast Petrovič aveva già visto il giorno prima in casa di Cunningham.
«Ecco, vostra eccellenza illustrissima, l’abbiamo trovato», riferì a voce bassa. «Abbiamo suddiviso tutto il palazzo e il giardino in quadrati, abbiamo rovistato tutto, frugato dappertutto, niente. A quel punto l’agente Eilenson, investigatore d’ottimo fiuto, ha pensato di picchiettare ogni parete nella cantina dell’esthernato. E cosa credete, Lavrentij Arkadevič? È stata scoperta una nicchia segreta, una specie di laboratorio fotografico, e lì venti scatole, in ciascuna fino a duecento schede circa. Un codice strano, come dei geroglifici, del tutto diversi da quelli della lettera. Ho dato disposizioni affinché le scatole siano portate qui. Ho messo in moto l’intero reparto decifrazioni, adesso si mettono al lavoro.»
«Bravo, Belozerov, bravo», lo lodò soddisfatto il generale. «E questo, col fiuto, presentatelo per una decorazione. Allora, andiamo al reparto decifrazione. Andiamo, Fandorin, interesserà anche a voi. Finirete dopo, adesso non c’è fretta.»
Salirono di due piani, si infilarono svelti in una galleria che non finiva più. Voltarono a un angolo. Incontro a loro correva un funzionario agitando le braccia.
«Che guaio, vostra eccellenza illustrissima, che guaio! L’inchiostro impallidisce direttamente sotto ai nostri occhi, non riusciamo a capire perché!»
Mizinov trottò in avanti, cosa che non si addiceva davvero alla sua figura corpulenta; i lambrecchini dorati sulle spalline gli sbattevano come le ali di una farfalla. Belozerov e Fandorin superarono poco rispettosamente il dirigente spilungone e irruppero per primi attraverso l’alta porta bianca.
La grande stanza, tutta occupata da tavoli, era in allarme. Una decina di funzionari si aggiravano su ammassi di ordinate schede bianche disposte a pile sui tavoli. Erast Petrovič ne prese uno, vide delle lettere appena distinguibili, simili a geroglifici cinesi. Proprio davanti ai suoi occhi i geroglifici scomparvero, e la scheda diventò bella pulita.
«Che diavoleria è mai questa!» esclamò il generale ansimando. «Degli inchiostri simpatici?»
«Temo, vostra eccellenza illustrissima, che sia molto peggio», disse un signore dall’aria professorale, esaminando in controluce la scheda. «Capitano, avete detto che l’archivio era conservato in qualcosa di molto simile a una camera oscura?»
«Proprio così», confermò con deferenza Belozerov.
«E non vi ricordate com’era l’illuminazione? Non c’era una luce rossa?»
«Proprio così, c’era per l’appunto una luce rossa.»
«È quello che pensavo. Ahimè, Lavrentij Arkadevič, l’archivio è perduto e ricostruirlo è impossibile.»
«Come?!» s’agitò il generale. «Non è pensabile, signor consigliere di collegio, dovete trovare una soluzione. Siete un maestro nel vostro campo, un luminare…»
«Ma non un mago, vostra eccellenza illustrissima. Evidentemente le schede sono state trattate con una soluzione speciale e ci si può lavorare solo con un’illuminazione rossa. Ormai lo strato su cui erano riportate le lettere è stato esposto alla luce. Un metodo astuto, niente da dire. Mi ci imbatto per la prima volta.»
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