Come si chiamava la carta a sinistra? Erast Petrovič non riusciva a ricordarselo. Questa era la «fronte», e l’altra… diavolo. Bel guaio. E come si fa a chiedere? Sbirciare il foglietto degli appunti era poco serio.
«Bravo!» esclamarono gli spettatori. «Conte, e’est un jeu intéressant, non trovate?»
Erast Petrovič si accorse che aveva vinto di nuovo.
«Fatemi il piacere di non francesizzare! Che razza di abitudine imbecille sarà mai quella di lardellare la lingua russa di mezze frasette francesi», disse con irritazione Zurov guardando chi aveva parlato, sebbene lui per primo infilasse modi di dire francesi a ogni piè sospinto. «Fate le carte, Fandorin, fate le carte. La carta è birichina, la fortuna arriva di mattina. L’intero banco.»
A destra un fante, questo alla «fronte», a sinistra un otto, questo…
Ippolit Aleksandrovič scoprì un dieci. Fandorin lo batté alla quarta levata.
Il tavolo ormai era circondato da ogni lato, e il successo di Erast Petrovič veniva apprezzato come meritava.
«Fandorin, Fandorin», borbottava distrattamente Ippolit Aleksandrovič, tamburellando con le dita sul mazzo. Finalmente estrasse la carta, contò duemilaquattrocento rubli.
Un sei di picche stava alla «fronte» già dalla prima apertura.
«Ma che razza di cognome!» esclamò il conte, montando su tutte le furie. «Fandorin! Di origine greca, sarebbe? Fandoraki, Fandoropulo!»
«Che c’entrano i greci?» chiese offeso Erast Petrovič, che aveva ancora fresco il ricordo di come i suoi compagni di classe fannulloni si prendevano gioco del suo antico cognome (il nomignolo di Erast Petrovič al ginnasio era «Fandoria»). «La nostra stirpe, conte, è altrettanto russa della vostra. I Fandorin prestavano servizio già all’epoca di Aleksej Michajlovič».
«Come no», si ravvivò il già menzionato vecchietto dal naso rosso, sostenitore di Erast Petrovič. «Al tempo di Caterina la Grande c’era un Fandorin che ha lasciato delle memorie interessantissime.»
«Memorie, memorie, per me sono brutte storie», rimeggiò cupo Zurov, componendo un’intera collinetta di banconote. «L’intero banco! Lanciate le carte, che v’agguanti il diavolo!»
«Le dernier coup, messieurs!» si sentì dire nella folla.
Tutti guardavano avidamente i due identici mucchi di banconote gualcite: una davanti al banchiere, l’altra davanti al pointeur.
Nel più totale silenzio Fandorin aprì due mazzi freschi, continuando nel frattempo a chiedersi come si chiamasse la carta a sinistra. Prontuario? Manuale?
A destra un asso, a sinistra pure. Zurov aveva un re. A destra una dama, a sinistra un dieci. A destra un fante, a sinistra una dama (ma quale contava di più, il fante o la dama?). A destra un sette, a sinistra un sei.
«Non soffiatemi sul collo!» urlò furioso il conte, al che indietreggiarono tutti.
A destra un otto, a sinistra un nove. A destra un re, a sinistra un dieci. Re!
Tutt’intorno ululavano e sghignazzavano. Ippolit Aleksandrovič stava seduto stupefatto.
Libro dei sogni! Tornò in mente a Erast Petrovič che sorrise rallegrandosene. La carta a sinistra era il libro dei sogni. Che nome strano.
Tutto a un tratto Zurov si sporse attraverso il tavolo e con dita d’acciaio strinse le labbra di Fandorin a trombetta.
«Non permettetevi di sogghignare! Avete vinto un gruzzolo, abbiate se non altro la buona grazia di comportarvi civilmente!» sibilò il conte con voce imbestialita, venendogli addosso. I suoi occhi iniettati di sangue facevano spavento. Nell’istante successivo spinse Fandorin sul mento, si abbandonò allo schienale della sedia e incrociò le braccia sul petto.
«Conte, questo è troppo!» esclamò uno degli ufficiali.
«Non sto certo scappando», pronunciò a denti stretti Zurov, senza levare gli occhi di dosso a Fandorin. «Se qualcuno si sente offeso, sono pronto a risponderne.»
Calò un silenzio davvero di tomba.
A Erast Petrovič ronzavano spaventosamente le orecchie, e aveva paura di una cosa sola, in quel momento: di mancare di coraggio. Ma ce n’era un’altra ancora, di paura: che gli tremasse proditoriamente la voce.
«Siete un farabutto e un mascalzone. Vorreste semplicemente non pagare», disse Fandorin, la voce gli tremò lo stesso, ma ormai non aveva importanza. «Vi sfido.»
«Fate l’eroe in pubblico?» disse Zurov digrignando i denti. «Vediamo che danza mi farete domani davanti alla canna della pistola. A venti passi, con le barriere. Ognuno spara quando vuole, dopo però deve venire subito alla barriera. Non vi fa paura?»
Fa proprio paura, pensò Erast Petrovič. Achtyrzev gli aveva detto che a venti passi prende una monetina da cinque copechi, figuriamoci una fronte. O, a maggior ragione, una pancia. Fandorin rabbrividì. Non aveva mai tenuto in mano una pistola da duelli. Una volta Ksaverij Feofìlaktovič lo aveva fatto sparare con una colt al tiro a segno della polizia, ma quella era una cosa completamente diversa. Quello lì ammazza, ammazza per una pipa di tabacco. Eppure lavora pulito, non fa una grinza. C’è pieno di testimoni. Un litigio alle carte, ordinaria amministrazione. Il conte se ne sta un mesetto agli arresti e poi esce, ha relazioni influenti, mentre Erast Petrovič non ha nessuno. Metteranno il giovane investigatore in una bara di semplici tavole, lo seppelliranno sottoterra, e ai funerali non verrà nessuno. Magari soltanto Grušin e Agrafena Kondratevna. E Lizanka lo leggerà sul giornale e penserà distrattamente: peccato, un poliziotto così sensibile, e tanto giovane poi. Ma no, non leggerà un bel niente, probabilmente Emma non le passa i giornali. Mentre il capo dirà di sicuro: Ho avuto fiducia in quell’imbecille, e lui c’è cascato come il più cretino dei polli. Gli è saltato in testa di spararsi, in preda a chissà quali struggicuori nobiliari. E sputerà pure.
«Come mai tacete?» chiese Zurov con un sorriso crudele. «O vi è passata la voglia di sparare?»
Ma intanto a Erast Petrovič era venuto in mente come salvarsi. Spararsi non andava fatto subito, al più presto l’indomani mattina. Certo, correre a lamentarsi dal capo sarebbe stata una bassezza indegna. Ma Ivan Francevič aveva detto che anche altri agenti lavoravano su Zurov. Era perfino molto probabile che anche lì, in sala, ci fosse qualche uomo del capo. Poteva accettare la sfida, salvare l’onore e se, per esempio, l’indomani all’alba la polizia avesse fatto irruzione e arrestato il conte Zurov per tenuta di una bisca clandestina, di questo Fandorin non avrebbe avuto colpa. Non avrebbe nemmeno dovuto sapere nulla, Ivan Francevič lo avrebbe capito senza di lui come agire.
La salvezza era, si può ben dire, in tasca, ma di colpo la voce di Erast Petrovič acquisì una sua vita indipendente, su cui la volontà del padrone non influiva, portò avanti un discorso folle e, cosa stupefacente, non tremava più: «Non mi è passata la voglia. Solo, perché mai domani? Meglio subito. Voi, conte, dicono vi esercitiate dal mattino alla sera con le monete da cinque copechi, e per l’appunto da venti passi?» (Zurov avvampò). «Meglio allora che facciamo in un altro modo, se non avete paura.»Ecco che il racconto di Achtyrzev cadeva a proposito! E non c’era bisogno di inventare nulla. Tutto era già stato pensato. «Tiriamo a sorte, e quello a cui tocca, va in cortile e si spara. Senza nessuna barriera. E con il minimo di spiacevolezze dopo. Qualcuno perde, si spara una pallottola in testa, ordinaria amministrazione. E i signori qui presenti danno la loro parola d’onore che tutto resterà segreto. Vero, signori?»
I signori si misero a discutere, e nel contempo le loro opinioni si divisero: alcuni esprimevano una disponibilità immediata a dare la loro parola d’onore, altri invece proponevano di consegnare il litigio all’oblio e brindare per fare la pace. Un maggiore dai baffi folti arrivò perfino a esclamare: «Che dritto però, il ragazzino!» cosa che diede ancora più foga a Erast Petrovič.
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