«Sì. Oppure danari. I cuori rossi invece sono coppe, a volte li chiamano anche diavoli oppure ‘cori’, da coeur. Andate in sartoria. Vi hanno preparato un completo su misura, e domani per l’ora di pranzo vi avranno tagliato un intero guardaroba per ogni caso della vita. Marsch, marsch, Fandorin, ho abbastanza da fare anche senza di voi. Subito dopo Zurov venite qui. A qualsiasi ora. Oggi passo la notte in direzione.»
E Brilling immerse il naso nelle sue carte.
in cui esce a sproposito un fante di picche
Nella sala piena di fumo stavano giocando a sei diversi tavoli verdi: ai più affollati in quattro, agli altri in due. A ciascun tavolo inoltre facevano ressa gli spettatori: ai tavoli delle poste basse erano in meno, dove invece lo Spiel cresceva fin sopra le nuvole, la folla era più numerosa. Dal conte non offrivano vino e spuntini, chi ne desiderava poteva andare in salotto e spedire il servo alla trattoria, però mandavano a prendere solo champagne, nel caso di una fortuna particolare. Da ogni parte risuonavano esclamazioni convulse, poco comprensibili a chi non fosse un giocatore.
«Je coupé!»
«Je passe.»
«Seconda levata.»
«Retournez la carte!»
«Però, signori, il banchiere ha perso tutto!»
«Il vostro sei è battuto!» e così via.
Più di tutto c’era folla al tavolo dove c’erano due che giocavano forte. Faceva da banchiere il padrone stesso, da pointeur un signore sudato nella sua finanziera alla moda, strettissima. A quanto pareva il pointeur non aveva fortuna, si mordeva le labbra, si agitava, mentre il conte era il sangue freddo in persona e si limitava a dei sorrisini melliflui sotto i baffi neri, aspirando fumo dal cannello ricurvo di una pipa turca. Le forti dita curate strette in anelli luccicanti distribuivano abilmente le carte: una a destra, l’altra a sinistra.
Fra gli spettatori, mantenendosi modestamente appena dietro agli altri, si trovava un giovane dai capelli neri e con una fisionomia colorita, assai insolita in un giocatore. Un uomo di mondo avrebbe capito al volo che il giovane era di buona famiglia, si trovava per la prima volta davanti al banco, e in quel posto tutto gli faceva soggezione. Certi signori navigati con la scriminatura imbrillantinata gli proposero più volte di «farsi qualche mano», ma restarono delusi: il giovane non puntava più di cinque rubli e non voleva assolutamente «scaldarsi». L’esperto maestro di giochi Gromov, che conosceva tutta la Mosca giocante, diede perfino «l’esca» al ragazzo, gli lasciò vincere cento rubli, ma perse invano il suo denaro. Gli occhi del giovane colorito non si accesero e le mani non gli tremarono. Aveva tutta l’aria di un cliente per nulla promettente, un vero «invan si pesca».
E intanto Fandorin (perché di lui, naturalmente, si trattava) immaginava di scivolare per la sala come un’ombra invisibile, a carpire segreti senza attirare su di sé la benché minima attenzione. Per il momento, a dire il vero, non aveva carpito un granché. A un certo punto notò un signore dall’aria oltremodo rispettabile che quatto quatto si era preso da un tavolo una moneta d’oro da cinque rubli e con grande dignità se l’era infilata in tasca. Due ufficialetti stavano bisticciando nel corridoio bisbigliando ad alta voce, ma Erast Petrovič non capì nulla del loro litigio: il tenente dei dragoni sosteneva con molta foga di non essere un cabalone qualsiasi e di non essersi mai permesso di trattare gli amici da «moretti», mentre il cornetto degli ussari gli rinfacciava un non meglio precisato «sicher».
Quanto a Zurov, accanto al quale Fandorin spuntava di tanto in tanto, era chiaro che in quell’ambiente si sentiva come un pesce nell’acqua, e magari nemmeno un pesciolino qualsiasi, ma proprio il Re Pesce. Una sua parola era sufficiente per spegnere sul nascere una rissa programmata, e una volta a un gesto del padrone due baldi servi presero sotto i gomiti un urlone che non voleva assolutamente calmarsi e in quattro e quattr’otto lo buttarono fuori dalla porta. Il conte decisamente non dimostrava di riconoscere Erast Petrovič, anche se Fandorin aveva colto ripetutamente su di sé il suo sguardo malevolo, veloce.
«Siamo alla quinta mano, signor mio», annunciò Zurov, e questa comunicazione per un qualche motivo fece piombare il pointeur in un’agitazione estrema.
«La piega della bestia!» strillò quello con voce tremante, e fece due orecchie alla sua carta.
Fra gli spettatori corse un mormorio, mentre il signore sudato, scostandosi dalla fronte una ciocca di capelli, gettò sul tavolo un mucchio intero di banconote di tutti i colori dell’iride.
«Cos’è la bestia?» chiese timidamente Erast Petrovič a voce bassa a un vecchietto dal naso rosso, a quanto pareva il più inoffensivo.
«Vuol dir quadruplicare la puntata», gli spiegò di buon grado il vicino. «Vuol dire sperare di prendersi una rivincita completa nell’ultima levata.»
Il conte esalò con aria indifferente una nuvoletta di fumo e girò a destra un re, a sinistra un sei.
Il pointeur scoprì un asso di cuori.
Zurov annuì e immediatamente fece un asso nero a destra, un re rosso a sinistra.
Fandorin sentì qualcuno che sussurrava pieno d’ammirazione: «Che maestro!»
Faceva pena a guardarlo, quel signore sudato. Percorse con lo sguardo il mucchio di banconote, trasferitesi sotto il gomito del conte, e chiese timidamente: «Permette, continuo sulla parola d’onore?»
«Non permetto», rispose pigramente Zurov. «Chi vuole ancora, signori?»
Inaspettatamente il suo sguardo si posò su Erast Petrovič.
«Sbaglio o ci siamo già incontrati?» gli chiese il padrone di casa con un sorriso sgradevole. «Signor Fedorin, se non sbaglio?»
«Fandorin», lo corresse Erast Petrovič, arrossendo penosamente.
«Pardon. Cosa state lì a scrutarci con l’occhialetto? Non siamo mica a teatro. Siete venuto, allora giocate. Prego», disse indicando la sedia libera.
«Sceglietelo voi, il mazzo», sussurrò all’orecchio di Fandorin il buon vecchietto.
Erast Petrovič si mise a sedere e, seguendo le istruzioni, disse con molta decisione: «Permettetemi soltanto, vostra eccellenza, di fare io da banchiere. Con diritto di principiante. E come mazzi preferirei… quello e quello», e prese dal vassoio i due mazzi più in basso di carte ancora sigillate.
Zurov fece un sorriso ancora più sgradevole: «Ebbene, signor principiante, la condizione è accettata, ma a questo patto: dopo una vincita non si corre via. Dopodiché il banco lo lasciate tenere a me. Allora, la posta?»
Fandorin ebbe un’esitazione, tutta la sua decisione lo abbandonò con la stessa rapidità con cui l’aveva colto.
«Cento rubli?» chiese timidamente.
«Scherzate? Mica siamo al caffè.»
«Allora trecento», disse Erast Petrovič mettendo sul tavolo tutto il suo denaro, inclusi i cento rubli vinti prima.
«Le jeu n’en vaut pas la chandelle», disse il conte scrollando le spalle. «Ma tanto per cominciare può andare.»
Estrasse una carta dal suo mazzo, e con gesto incurante ci gettò sopra tre banconote da cento.
«Punto per l’intero banco.»
«Fronte» a destra, si ricordò Erast Petrovič, e mise accuratamente a destra una dama con i cuoricini rossi, e a sinistra un sette di picche.
Ippolit Aleksandrovič con due dita girò la sua carta e aggrottò appena la fronte. Era una dama di quadri.
«Eh, il principiante», fischiettò qualcuno. «L’ha spazzolata bene la sua dama.»
Fandorin mescolò goffamente il mazzo.
«L’intero banco», disse il conte con aria beffarda, gettando sul tavolo sei banconote. «Eh, non correre rischi, se non vuoi prenderle.»
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