Erast Petrovič pensò con invidia che ce n’erano di motivi per amare quel bellone di Ippolit, testa spericolata, anche senza incendi. Un dritto del genere, probabilmente, di donne ne ha a bizzeffe. E com’è che certa gente ha tanta fortuna? Comunque queste considerazioni erano fuori tema. Bisognava chiedere a proposito.
«Chi è, da dove viene?»
«Non lo so. Non le piace parlare molto di sé. So soltanto che è cresciuta da qualche parte all’estero. A quanto pare in Svizzera, in un qualche collegio.»
«E dove si trova adesso?» chiese Erast Petrovič, senza del resto troppo contare sul successo.
Zurov a ogni buon conto tardava a rispondere, e Fandorin si sentì mancare.
«Ti interessa tanto?» chiese cupamente il conte, e una fugace smorfia malevola deformò il suo viso bello e capriccioso.
«Sì!»
«Già, se una falena è attratta dalla candela, non potrà che bruciare…»
Ippolit si mise a frugare sul tavolo fra mazzi di carte, fazzoletti gualciti e conti di bottega.
«Dove diavolo è finito? Ecco, adesso ricordo», disse aprendo una scatoletta giapponese laccata con una farfalla di madreperla sul coperchio. «Tieni. È arrivato con la posta cittadina.»
Con le dita che gli tremavano Erast Petrovič prese la stretta busta sulla quale con una calligrafia inclinata, veloce, era scritto: «A sua eccellenza il conte Ippolit Zurov, vicolo dell’Apostolo Giacobbe, casa propria». A giudicare dal timbro, la lettera era stata spedita il 16 maggio, lo stesso giorno che la Bežezkaja era scomparsa.
Dentro trovò un breve biglietto in francese privo della firma:
Mi sono trovata nella necessità di partire senza salutarti. Scrivimi a Londra, Gray Street, hotel Winter Queen, c/o Miss Olsen. Aspetto. E non osare dimenticarmi.
«E io invece oso», minacciò nervosamente Ippolit, per abbassare subito dopo il tiro: «A ogni modo, ci sto provando… Tieni, Erasm. Fanne quel che ti pare… Dove vai?»
«Vado», disse Fandorin, ficcandosi la busta in tasca. «Bisogna fare in fretta.»
«Oh oh», disse il conte con compassione scuotendo il capo. «Fa’ pure, vola nel fuoco. È la tua vita, mica la mia.»
Nel cortile Erast Petrovič fu raggiunto da Jean che teneva un pacchetto in mano.
«Ecco, signore, l’avete dimenticato.»
«Che cosa?» chiese seccato Fandorin che andava di fretta.
«Scherzate? La vostra vincita. Sua eccellenza mi ha ordinato di raggiungervi immediatamente e di mettervela in mano.»
Erast Petrovič fece un sogno stupefacente.
Era seduto al banco in classe, nel suo ginnasio di governatorato. Sogni del genere, solitamente ansiosi e spiacevoli, li faceva assai spesso: di essere di nuovo un ginnasiale e non sapere risolvere alla lavagna un problema di fisica oppure di algebra, ma questa volta non era solo pieno d’angoscia, era veramente atterrito. Fandorin non riusciva assolutamente a capire il motivo di questa paura. Non si trovava alla lavagna, ma al suo banco, intorno c’erano alcuni seduti come fossero i suoi compagni di scuola: Ivan Franzevič, Achtyrzev, un certo bel giovanotto con la fronte alta e pallida e arditi occhi castani (di lui Erast Petrovič sapeva che era Kokorin), due fanciulle con i grembiuli bianchi e ancora qualcun altro, voltato di spalle. Fandorin aveva paura di quello voltato di spalle e cercava di non guardare nella sua direzione, mentre non faceva che storcere il collo per vedere meglio le ragazze: brunetta una, biondina l’altra. Erano sedute a un banco, con le mani sottili poggiate diligentemente una sopra l’altra. Una era Amalia, l’altra Lizanka. La prima lanciava sguardi brucianti coi suoi occhioni neri e gli mostrava la lingua, mentre la seconda gli sorrideva timidamente e abbassava le folte ciglia. Qui Erast Petrovič vide che alla lavagna c’era lady Esther con la bacchetta in mano, e tutto diventò chiaro: si trattava dell’ultimissimo sistema di insegnamento inglese, in cui i ragazzi e le ragazze studiano insieme. E anche molto bene. Quasi avesse udito i suoi pensieri, lady Esther sorrise tristemente e disse: «Questo non è l’insegnamento in comune, questa è la mia classe di orfani. Siete tutti orfani, e io devo indirizzarvi sulla vostra strada». «Scusate, milady», disse stupito Fandorin, «però io so per certo che Lizanka non è orfana, ma figlia di un consigliere segreto effettivo.»«Ah, my sweet boy», disse milady con un sorriso ancora più triste. «Lei è una vittima innocente, e questo è lo stesso che essere un’orfanella.»L’uomo spaventoso, che gli stava seduto davanti, si voltò lentamente e, guardando fissamente coi suoi occhi bianchicci, trasparenti, sussurrò: «Anch’io, Azazel, sono un orfano». Fece l’occhiolino con aria cospiratoria e, perdendo ogni freno, disse imitando la voce di Ivan Franzevič: «E pertanto, mio giovane amico, mi tocca uccidervi, cosa di cui provo il più sincero rincrescimento… Ehi, Fandorin, cosa ve ne state lì seduto imbambolato. Fandorin!»
«Fandorin!» Qualcuno stava scuotendo per la spalla Erast Petrovič tormentato dall’incubo. «Ma svegliatevi, è già mattina!»
Fandorin si riscosse, si alzò di scatto, voltò la testa. Si accorse di essersi addormentato nell’ufficio del capo, era stato sopraffatto dal sonno direttamente alla scrivania. Dalla finestra attraverso gli scuri aperti si riversava la gioiosa luce mattutina, mentre accanto a lui c’era Ivan Franzevič, vestito chissà perché come uno del ceto borghese: aveva un berretto con la visiera di stoffa, un caffettano a pieghe e stivali a fisarmonica inzaccherati di fango.
«Allora, siete crollato, mi aspettavate con ansia?» chiese allegramente il capo. «Scusate la mascherata, ho dovuto assentarmi di notte per una questione urgente. Ma andate a lavarvi, basta sbattere gli occhi. Marsch, marsch!»
Mentre Fandorin andava a lavarsi, gli tornarono in mente gli eventi della notte appena trascorsa, gli tornò in mente di come se n’era andato a rotta di collo via da casa di Ippolit, era saltato su una carrozza leggera col vetturino addormentato e gli aveva ordinato di andare di corsa in via Mjasnizkaja. Tale era l’impazienza di raccontare al capo il suo successo, ma Brilling non era sul posto. Erast Petrovič prima aveva sbrigato una faccenda urgente, poi si era messo alla scrivania ad aspettarlo, e senza accorgersene era sprofondato nel sonno.
Quando tornò nell’ufficio, Ivan Franzevič si era già cambiato in un completo chiaro e beveva del tè al limone. Un altro bicchiere dentro il portabicchiere d’argento fumava davanti al suo, sul vassoio c’erano ciambelle e panini.
«Facciamo colazione», gli propose il capo, «e intanto parliamo. Le vostre avventure notturne mi sono perfettamente note, ma ho qualche domanda da farvi.»
«Come fate a conoscerle?» chiese dispiaciuto Erast Petrovič, che aveva pregustato il piacere del racconto e, a dire il vero, intendeva sorvolare su alcuni dettagli.
«Da Zurov c’era un mio agente. Sono già tornato da un’ora, ma mi dispiaceva svegliarvi. Mi sono seduto qui, ho letto il rapporto. Una lettura avvincente, non ho nemmeno fatto in tempo a cambiarmi.»
Sbatté la mano sui foglietti scritti con una grafia minuta.
«Un agente lucido, però scrive in un modo spaventosamente pittoresco. Si immagina di avere un talento letterario, scrive sui giornaletti sotto la pseudonimo di ‘Maximus Perspicax’, sogna una carriera di censore. Ascoltate, vi interesserà. Dov’è… Ah, ecco qui.
Descrizione dell’oggetto. Nome: Erasm von Dorn, o von Doren (stabilito a orecchio). Età: non più di venti. Ritratto verbale: altezza un metro e settantacinque; costituzione corporea scarna; capelli neri e dritti; niente barba e baffi e non ha l’aria di radersi; occhi azzurro chiaro, ravvicinati, leggermente a mandorla sugli angoli; pelle bianca, pulita; naso sottile, dritto; orecchie schiacciate, piccole, a lobo corto. Segni particolari: non gli va mai via il rossore dalle guance. Impressioni personali: tipico rappresentante di una jeunesse dorée viziata e sfrenata con capacità fuori dall’ordinario di duellista. Dopo gli eventi summenzionati si è allontanato con il Giocatore nello studio di quest’ultimo. Hanno conversato per ventidue minuti. Parlavano a voce bassa, con pause. Da dietro la porta non si sentiva quasi nulla, ma ho colto distintamente la parola «oppio» e ancora qualcosa a proposito del fuoco. Ho ritenuto necessario pedinare von Doren, sennonché questi, con tutta evidenza, mi ha scoperto, mi ha distanziato con grande abilità e se ne è andato in carrozza. Propongo…
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