Giovanni Verga - Eros
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La signorina Velleda fece una bella riverenza da ballo, ed Alberto se ne rammentò scrivendo il giorno stesso all’amico Gemmati: “Se avessi visto con quanta grazia inchinandosi spingeva indietro il suo vestito!”.
Velleda andava innanzi, giocherellando sempre colla sua bacchettina a mo’ di frustino, un po’ da bambina capricciosa, un po’ da leggiadra civettuola. Allo svoltar d’un viale scomparve.
Adele, che chiacchierava col cugino, tutta giuliva, arrossí improvvisamente, ed Alberto se ne avvide.
«Che hai?» le domandò.
«Il babbo non sa nulla del tuo arrivo… cerco di vederlo.»
Il babbo li vedeva benissimo dalla sua finestra, e si fregava le mani.
Al rammentarsi dello zio il giovane si fe’ scuro in viso, e pensò agli esami andati a monte. Ma lo zio, ch’era il miglior zio del mondo, abbracciò teneramente il nipote, come se costui non avesse delle palle nere sulla coscienza; anzi a tavola comparve un certo fiasco di vecchio chianti, di quel delle grandi occasioni, e se l’avessero lasciato fare, lo zio avrebbe fatto crepare il nipote di indigestione, per provargli la sua tenerezza. L’Adele fu ciarliera e taciturna a sproposito, la signorina Manfredini disinvolta e piena di brio, Alberto un po’ imbarazzato, un po’ distratto, e di quando in quando aveva certi assalti di allegria che gli montavano al viso, gli luccicavano negli occhi e si risolvevano in bizzarre effusioni di affetto per lo zio Bartolomeo.
«La bella luna!» esclamò Adele affacciandosi alla finestra. «O che non si va in giardino?»
Velleda, interrogata a quel modo, si mise a ridere.
«Vacci anche tu» disse lo zio ad Alberto, che non faceva le viste di muoversi.
«E lei, zio?»
«O cosa vuoi che venga a farci io? Ci ho il mio giornale da digerire. Vai pure.»
IV
Le due ragazze irruppero in giardino allegre e chiassose; la luna sembrava inondarle di un pallido chiarore, traeva dei riflessi turchinicci dai capelli di Adele, dava un che di vaporoso a quelli di Velleda, luccicava sulla seta, giocava colle ombre, frastagliavasi fra i cespugli, disegnava nettamente in bianco i viali; il cielo era terso, leggermente azzurro; le gaie voci e gli allegri scrosci di risa avevano cristalline sonorità.
«Sono stanca!» disse Adele lasciandosi andare su di un sedile, e raccolse la sua vesticciuola volgendosi verso di Alberto con un tacito invito; costui che chiacchierava spensieratamente tacque all’improvviso.
«Ho dimenticato il mio scialletto» disse Velleda con singolare vivacità.
«Andrò a prenderlo» rispose premuroso Alberto.
La ragazza non poté dissimulare un sorriso maliziosetto.
«Grazie, non s’incomodi» rispose, e partí correndo.
Adele s’era ritirata in là per far posto al cugino accanto a lei; ma egli si mise a passeggiare innanzi e indietro, gettando di tempo in tempo sguardi avidi e imbarazzati sul sedile.
«Vuoi metterti a sedere?» diss’ella.
«No… grazie… non ti comoda?»
«Che!»
Ella si mise a strappare le foglie del rosaio. Alberto accavallava ora una gamba ora l’altra, guardava gli alberi, il viale, la punta dei suoi stivali, e non sapeva che farsene delle mani.
«Mi permetti di fumare?» disse dopo un lungo silenzio, e come se avesse fatto una grande scoperta.
«Fai pure.»
Egli trionfante accese un sigaro, e si diede a buffare il fumo con enfasi.
«Ti dà noia il fumo?» le domandò.
«No» rispose Adele tossendo e fregandosi gli occhi.
E tacquero di nuovo.
«Bella sera!» esclamò finalmente Alberto col naso in aria.
«Bellissima.»
«E punta fredda!»
«Punta.»
«È un pezzo che non ci vediamo, sai!»
«Due anni.»
«È vero.»
Ella lo stava a guardare seria seria.
«Hai imparato a fumare!» gli disse finalmente con un sorriso, e come se gli confidasse un segreto che nascondeva da qualche tempo.
«Cosa vuoi, i vizi si imparano facilmente!» rispose Alberto con gravità.
«Però il sigaro ti sta bene!»
Ei la guardò nei grand’occhi turchini che luccicavano al chiaro di luna, chinò i suoi prestamente, e si soffiò il naso. Adele riduceva in pezzi minutissimi le foglie che avea strappato dal rosaio.
«Ma il tuo giardino è molto bello!» disse finalmente Alberto.
La giovanetta guardò attorno, come se vedesse quegli alberi per la prima volta, e rispose:
«Sí, molto bello.»
«Una delizia!»
«Una vera delizia. Quella fontana lí ce l’ho voluta io.»
«Davvero?»
«Sí, non è bellina?»
«Bellina tanto!»
«È tutta di marmo, sai!»
«Oh!»
«Il babbo non voleva, per via della spesa…»
«Deve aver costato parecchio!»
«Altro! Ma il babbo mi vuol tanto bene!»
«Oh! (in un altro tono).»
«E anche te, sai, ti vuol bene!»
Il dialogo che si reggeva sui trampoli, minacciò d’inciampare in quel sassolino.
«Ha detto che ti terrà qui sino a novembre» soggiunse Adele vedendo che il cugino stava zitto.
«Ma…»
«Ti rincresce?»
«No!… no…!»
«Non ti annoierai?»
Egli si volse, la guardò, poi si mise a scuotere col mignolo la cenere del sigaro Adele rimase alquanto pensierosa, la povera bambina, e soggiunse, un po’ trepidante: «Ci starai volentieri?»
«Figurati!»
«Anche Velleda ci starà sino a novembre. Che festa!» Il cugino si senti maledettamente ridicolo per non sapere metter fuori il piú meschino complimento.
«Ti piace la mia Velleda?» riprese Adele.
«A me?…»
«Non è bella?»
«Oh sí!»
«Anch’essa ha detto che sei un bel giovanotto.»
A quelle parole parve ad Alberto che la luna irradiasse di un’aureola l’Adelina.
«Anche te ti sei fatta bella!…» disse col coraggio della gratitudine.
«Davvero?»
«Davvero.»
Ella sorrise, chinò il capo, incrociò le pallide manine sulle ginocchia, e il raggio della luna sembrò farsi vermiglio sulle sue guance.
L’usignuolo cantava: passò un alito di venticello che fece stormire lievemente le foglie. Essi si sentivano l’uno accanto l’altra. Tutt’a un tratto la fanciulla scoppiò a ridere.
«Oggi volevo darti del lei, vedi!»
«O perché?»
«Perché ti sei fatto grande: avevo suggezione di te… ecco!»
«Oh!»
Ella si volse verso di lui, con un improvviso movimento d’espansione e d’abbandono – i sentimenti puri e le anime vergini hanno di codeste arditezze innocenti – ed egli si tirò in là modestamente.
«Ma se tu m’avessi dato del lei non te l’avrei perdonato mai!»
«Perché?»
«Perché… perché… non lo so il perché.»
Tacquero entrambi, e sentivano che quel silenzio li dominava. Alberto era tutto intento a fumare, e l’Adele a pungersi le mani sul rosaio. Si udiva il fruscío della sua veste ad ogni movimento di lei.
«L’ultima volta che partisti pel collegio pioveva, ti rammenti ?»
«Sí, tu mi scrivesti per domandarmi come fossi arrivato.»
«Ti rammenti anche di codesto?»
«Ho ancora la lettera.»
«Davvero?» arrossí e volse il capo. «E Velleda che non ritorna!»
«Mi par di vederla laggiú.»
«Velleda!»
«Oh, siete ancora costà?» gridò Velleda da lontano.
«Parlavamo di te, sai!» esclamò Adele correndole incontro, e buttandole le braccia al collo le sussurrò qualcosa all’orecchio.
«Cattiva!» mormorò Velleda chinando il capo e facendosi rossa.
«Grulla!» borbottò il signor Bartolomeo quando lo seppe.
Alle undici tutti i lumi della villa erano, o sembravano, spenti. Alberto che stava alla finestra, come uno che abbia bisogno di mettersi in cuore tutta la serena bellezza di una notte estiva, credette di scorgere un fil di luce che trapelava fra le stecche della persiana di una finestra al pianterreno, di faccia alla sua. E si sporse in fuori per meglio vedere; ma la luce si fece all’improvviso piú viva, come pel dileguarsi di un’ombra frapposta, e si spense quasi subito.
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