Giovanni Verga - Eros
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«E non amerai altri che me?»
La giovinetta lo fissò collo sguardo limpido e franco della vergine, e rispose con ingenua meraviglia:
«Potresti amare un’altra, tu?»
«No… no!…»
«O dunque?»
Ei rimase un istante pensieroso.
«E m’amerai sempre cosí?»
«Sempre, e insegnerò ai tuoi figli ad amarti cosí!» rispose la fanciulla con sublime candore.
Alberto tacque, si fe’ scuro in viso, ed evitò di guardarla. Aveva sentito come una trafittura. La schietta rivelazione del casto istinto materno che rivelavasi negli occhi sereni e nell’ingenuo sorriso della vergine, sconvolgeva l’artificiosa poesia del suo cuore, lo faceva precipitare dagli astri fra i quali libravasi, e lo faceva pensare.
«Cos’hai?» gli domandò Adele, che lo vide rannuvolato..
«Ho che voglio essere amato da te, e non dai miei figli!» rispose sfogando come poteva il suo malumore. «Ho che amo te, e non… Ho che ti amo, perché ti amo… senza pensare ad altro… Amami cosí, Adele! Amiamoci per amarci… perché altrimenti… sai…»
«Che cosa?»
«Potremmo dubitare di noi medesimi… delle nostre intenzioni… potremmo dubitare del nostro amore…»
Giusto quando Alberto stava per sciorinare tutta la sua teoria dell’amore puro, poetico e senza figliuoli, si udí tossire alla finestra di sopra, ch’era quella dello zio Bartolomeo. Adele scappò come una cerbiatta spaventata; Alberto si fece piccin piccino, e sgattaiolò rasente al muro. Ci volle una buona mezz’ora prima di decidersi a rientrare per la finestra, dopo essersi assicurato che non si udiva fiatare anima viva, e che la finestra dello zio era proprio chiusa. Però fu tormentato tutta la notte dal dubbio, combinato colla tosse dello zio, che quella tal persiana non fosse stata sempre socchiusa, come l’avea vista rientrando – e di vento non ne avea tirato una maledetta in tutta la sera. Il giorno dopo avrebbe voluto trovarsi cento miglia lontano piuttosto che comparire al cospetto del terribile zio.
Verso le otto stava per svignarsela bel bello, col pretesto d’andare a caccia, quando il domestico venne a cercarlo giusto da parte dello zio.
«Vengo subito» rispose il nipote, che sarebbe andato piú volentieri al diavolo.
VIII
Al veder la faccia patriarcale e il sorriso giovialone dello zio, il giovanotto si sentí meglio, e cercò di sorridere anche lui. Lo zio aveva un monte di scartafacci sul tavolino, e gli occhiali sul naso.
«Stavi per andare a caccia?» domandò amichevolmente. «Sí, caro zio» balbettò il giovane con tenerezza.
«Scusami, ma ho a farti un discorso serio.»
Alberto sentí che si faceva piccino di nuovo. Gli occhiali dello zio gli abbacinavano la vista.
«Ma mi sbrigherò in un fiat» riprese il signor Bartolomeo. «Ho messo tutto in ordine da un mese. Non avrai che a gettare gli occhi sui conti, e spero che sarai contento di me.»
Alberto respirò liberamente, e rispose ch’era contentissimo.
«Vedrai che ordine! che esattezza scrupolosa! Se avessi amministrato sempre io a quest’ora saresti… Basta! dei morti non si parla. Cotesti son atti di gabella… le spese… i bilanci… il rendiconto della tutela… Stammi a sentire.»
«Ma zio mio!… le pare!…»
«No, no, figliuolo mio… Sono affari delicati questi… Ci son di mezzo io… Si tratta di tutela…!»
Alberto, che non capiva nulla di nulla, e che aveva in corpo per giunta il rimorso di quella tal magagnetta della notte scorsa, perdette intieramente la testa soltanto a gettare gli occhi su quelle lunghe filze di cifre, e si lasciò trascinare pei capelli in un labirinto di dare ed avere, riscossioni, pagamenti, bonificazioni, atti giudiziari, spese diverse, ecc., approvando del capo, o sfogandosi in proteste di fiducia e di gratitudine. Dopo un par d’ore di quel supplizio venne a sapere che lo zio Bartolomeo, sulle trentaduemila lire d’entrata, avea fatto, durante la sua tutela, una economia di lire 5876 e 97 centesimi – oltre le tutte spese e la pensione pagata regolarmente al collegio Cicognini – delle quali, 5876 lire e 97 centesimi avea mandato al nipote 2000 lire, quando era ancora a Prato, e senza parlare di un rigo di ricevuta, e le rimanenti lire 3876,97 le consegnava al momento. Ben inteso senza voler sentire nemmeno discorrere d’indennità – diamine! non era del medesimo sangue per nulla! Alberto gli rammentava al vivo la sua povera Cecilia! Anzi non volle neppur restituiti i tre centesimi d’avanzo.
Il nipote, malgrado la sua inesperienza, sentiva vagamente che i ringraziamenti gli venivano stentati, e che si ricordava della tosse significativa della notte scorsa.
«Adesso, per la vita e per la morte, è bene mettersi in regola per via di notaio con una buona quietanza.»
Alberto non fiatò, e sottoscrisse tutto quello che lo zio e il signor Zucchi gli misero sotto la mano.
IX
Gemmati era andato a Pistoia per un par di giorni. Alberto l’aveva accompagnato per un tratto di strada; poi era ritornato a piedi, per le scorciatoie che s’arrampicavano su per l’erta fiancheggiate da siepi fiorite. La viottola sbucava sulla strada carrozzabile, a pochi passi, in mezzo ai folti che continuavano a salire col monticello. Le due ragazze stavano per mettervi il piede quand’egli arrivò dall’altra parte della strada maestra; si voltarono al rumore dei suoi passi, e misero un oh! prolungato.
«Vi ho fatto paura?»
«Paura di che?» disse Velleda.
«Sí, ci hai fatto paura» rispose ridendo l’Adele.
«Volete che vi accompagni?»
«Dove andremo?»
«Ma.. dove vuoi» rispose Velleda all’interrogazione dell’amica.
«Se tornassimo a casa?»
La signorina Manfredini non fece alcuna osservazione; si voltò indietro, e incominciò a camminare verso il cancello, appoggiandosi all’ombrellino, con quell’altera indifferenza che l’avea fatta soprannominare la principessa.
«Sai, non è stato nulla!» disse al cugino Adele, senza osar di guardarlo.
Velleda li precedeva senza affettazione pel gran viale del giardino, voltandosi di tanto in tanto per fare una interrogazione, o fermandosi per raccogliere col medesimo interesse un fiore o un filo d’erba. I due cugini la seguivano l’uno accanto all’altra, chiacchierando fra di loro, ma senza
darsi il braccio. L’Adelina era un po’ pallida, aveva certi rossori fuggitivi, certi impeti d’allegria, come una pienezza di vita che si fosse concentrata nel cuore. Andava lentamente, quasi fosse stanca, con certa mollezza carezzevole rispondeva a lui con voce piena di una dolce sonorità, e gli sorrideva senza alzare gli occhi, con un sorriso velato.
Entrando nel salotto Velleda sprigionò i suoi magnifici capelli biondi, togliendosi il largo cappello di paglia, e vi rovesciò tutto quel mucchio d’erbe e di fiori che si teneva in grembo.
«Cosa vuoi farne?» le domandò Adele.
«Il piú bel mazzo, vedrai!»
Appena rimasero soli il cugino prese la mano della giovinetta, e le disse: «Come sei bella!». Ella gli sorrise senza alzare gli occhi.
Il sole faceva scintillare i vetri della finestra, e inondava di atomi dorati il viso della fanciulla. Ella lavorava in silenzio, col capo chino sul ricamo, e le sue mani, che si affaticavano con febbrile impazienza, dicevano al giovane amato tutte quelle cose che le labbra tacevano. – Essi si parlavano da mezz’ora senza aprir bocca – lui cogli sguardi che la giovinetta si sentiva posare sui capelli come un bacio – ella con quel silenzio, cogli improvvisi rossori che passavano sulla nuca delicata, e col lieve tremito delle mani.
«Adele!» mormorò alfine Alberto con voce appena intelligibile. Ella trasalí. «Sei in collera con me?» Essa cercò due o tre volte il buco del canovaccio dove infilar l’ago, e balbettò:
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