Giovanni Verga - Eva
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Giovanni Verga
EVA
Eva
Eccovi una narrazione – sogno o storia poco importa – ma vera, com’è stata e come potrebbe essere, senza retorica e senza ipocrisie. Voi ci troverete qualcosa di voi, che vi appartiene, che è frutto delle vostre passioni, e se sentite di dover chiudere il libro allorché si avvicina vostra figlia – voi che non osate scoprirvi il seno dinanzi a lei se non alla presenza di duemila spettatori e alla luce del gas, o voi che, pur lacerando i guanti nell’applaudire le ballerine, avete il buon senso di supporre che ella non scorga scintillare l’ardore dei vostri desideri nelle lenti del vostro occhialetto – tanto meglio per voi, che rispettate ancora qualche cosa.
Però non maledite l’arte che è la manifestazione dei vostri gusti. I greci innamorati ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il «cancan» litografato sugli scatolini dei fiammiferi. Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni; l’arte allora era una civiltà, oggi è un lusso: anzi, un lusso da scioperati. La civiltà è il benessere; ed in fondo ad esso, quand’è esclusivo come oggi, non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale. In tutta la serietà di cui siamo invasi, e nell’antipatia per tutto ciò che non è positivo – mettiamo pure l’arte scioperata – non c’è infine che la tavola e la donna. Viviamo in un’atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la esuberanza di tal vita.
Non accusate l’arte, che ha il solo torto di avere più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create, – voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l’onore là dove voi non lasciate che la borsa, – voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivalini inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia.
Avevo incontrato due volte quella donna – non era più bella di tutte le altre, né più elegante, ma non somigliava a nessun’altra. – Nei suoi occhi c’erano sguardi affascinanti, come il corruscare di un’esistenza procellosa che era piena di attrattive. – Tutti gli abissi hanno funeste attrazioni, e quelle voragini che ingoiano la giovinezza, il cuore, l’onore, si maledicono facilmente, ahimè! quando arriva la filosofia dei capelli bianchi. – Era bionda, delicata, alquanto pallida, di quel pallore diafano che lascia scorgere le vene sulle tempie e ai lati del mento come sfumature azzurrine; aveva gli occhi cerulei, grandi, a volte limpidi, quando non saettavano uno di quegli sguardi che riempiono le notti di acri sogni; aveva un sorriso che non si poteva definire – sorriso di vergine in cui lampeggiava l’imagine di un bacio. Ecco che cosa era quella donna, quale si rivelava in un baleno, fuggendovi dinanzi nella sua carrozza come una leggiadra visione, raggiante di giovinezza, di sorriso e di beltà. – In tutta la sua presenza c’era qualcosa come una confidenza fatta al vostro orecchio con labbra tiepide e palpitanti, che vi rendeva possibile il sognare le sue carezze, e farci su mille castelli in aria. Non era soltanto una bella donna – certe altezze non attraggono appunto perché sono inaccessibili. – L’ammirazione che ella destava assumeva la forma di un desiderio; c’era nei suoi occhi qualche cosa come un sorriso e una promessa che faceva discendere la dea dal suo cocchio superbo – o piuttosto vi metteva accanto a lei, e faceva correre il vostro pensiero alle cortine della sua alcova, e ai viali più ombreggiati del suo giardino.
Si chiamava Eva, o almeno si faceva chiamare così, e quel nome era forse un epigramma. Tutti conoscevano la sua vita un po’ più in là del palcoscenico della Pergola, e, forse meglio di tutti, le dame del gran mondo che parlavano di lei celandosi dietro il ventaglio. Nessuno ne sapeva più di un altro. Era l’apparizione di un astro in mezzo alla splendida società fiorentina, una febbre di giovanotto fatta donna.
L’avevo incontrata due volte, e non mi era sembrata la stessa donna, forse per le diverse disposizioni d’animo in cui mi ero trovato; e forse anche per ciò che era rimasta in me più viva e profonda l’impressione di lei. La prima volta la vidi pel Lungarno, in un elegante legnetto, e guidava una bella pariglia di cavalli inglesi; aveva il sorriso negli occhi più che nelle labbra, ed era una cert’aria graziosa ed ardita in tutta la sua persona che vedendola faceva sorridere di piacere. Io ero triste, senza saperne il perché, forse per non avere meglio da fare, e macchinalmente la seguii cogli occhi e col pensiero – e il pensiero corse lontano verso tutte le ridenti follie del cuore. Un’altra volta la incontrai alle Cascine, in uno di quei viali che nessuno frequenta. Quel mattino il mio cuore faceva festa – domeniche gioconde dei venticinque anni che non tornano più! – Il sole splendeva, ed il sorriso brillava negli occhi di Vittorina – larva di un di quei giorni in cui si prodiga tanta parte di cuore come se non dovessero tramontare giammai – fantasma di un’ora felice che si dimentica prima ancora che sia trascorsa, – nello stesso modo che ella avrà dimenticato persino il mio nome, o lo rammenterà come io adesso mi rammento del suo, a proposito di qualche cosa che allora ci passò sotto gli occhi senza che ce ne avvedessimo. Il viale era deserto, gli uccelli cinguettavano fra gli alberi, e i rami sussurravano lieve lieve, intrecciando mollemente le loro ombre in bizzarri disegni sulla ghiaia del viale. Noi non si parlava certamente dell’ultimo fascicolo dell’Antologia. Vittorina era allegra, cantava, rideva e il riso la faceva bella. Io guardavo ed ascoltavo. Quando il nostro fiacre passò accanto ad un bellissimo legno, che stava fermo in mezzo al viale, vidi, attraverso il cristallo scintillante, una testolina bionda, come una rosea visione, incorniciata dall’imbottitura di seta della carrozza. Ella ci volse uno sguardo, un solo sguardo limpido come l’azzurro dei suoi occhi, ma disattento, anzi noncurante, uno di quegli sguardi che vi affissano in volto senza vedervi, e tornò a chinare gli occhi sul libro.
Vittorina chinò il capo e ammutolì, come se quella bionda e leggiadra visione fosse sempre lì, fra di noi, seduta sui cuscini della nostra carrozza.
La rividi anche mascherata ad un veglione della Pergola. La folla si apriva sussurrante davanti a lei, e sguardi bramosi l’accompagnavano come se indovinassero la sua bellezza soltanto a quello stivalino arcuato e a tacchi alti che si posava da padrone sul tappeto. Io l’avevo vista un momento a viso scoperto, mentre discendeva da una carrozza di cui i fanali scintillavano come due stelle, sollevando arditamente la veste sul marciapiede con quella altera civetteria che non si cura dello sguardo indiscreto, o gli getta come una limosina l’onda vaporosa della battista e il lucido riflesso dello stivalino. La rividi in mezzo alla folla, accompagnata da un elegante trovatore che le dava il braccio, e seguita sempre da vicino o da lontano da un arlecchino, con tanta insistenza che tutti la notavano. Ella passava sorridente sotto la sua maschera – aveva un sorriso incantevole – e ogni volta che l’arlecchino l’incontrava le ripeteva la sciocca domanda solita: «Ti diverti, mascherina?» Ed essa rideva, rideva allegramente; e ridendo imporporava il basso delle sue guance, quel po’ che se ne poteva vedere. Una delle volte mi trovavo fra un crocchio d’amici, e si fece largo davanti a quella regina che passava.
L’arlecchino la seguiva sempre, come un cane allampanato colla coda attaccata al ventre e l’occhio bramoso intento al tozzo di pane che indovina nella tasca del padrone; e ripeteva il suo ritornello col tono afflitto di un cane che ustoli. Allora la bella mascherina, che non ne poteva più, si strinse nelle spalle con molta grazia, e gli gettò in faccia una parola sola, voltandosi dall’altra parte:
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