Luigi Pirandello - In Silenzio
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– Ma scusi tanto, signor dottore, – disse, socchiudendo i begli occhi neri, – lei s’affligge sul serio per quella vecchia matta? Qua in paese la conoscono tutti, signor dottore, e non le bada più nessuno. Lei domandi a chi vuole, e tutti le diranno che è matta, da quattordici anni, sa? Da che le sono partiti quei due figliuoli per l’America. Non vuole ammettere che essi si siano scordati di lei, com’è la verità, e s’ostina a scrivere, a scrivere… Ora, tanto per contentarla, capisce? Io fingo… così, di farle la lettera; quelli che partono, poi, fingono di prendersela per recapitarla. E lei, poveraccia, s’illude. Ma se tutti dovessimo far come lei, a quest’ora, signor dottore mio, non ci sarebbe più mondo. Guardi, anch’io che le parlo sono stata abbandonata da mio marito… Sissignore! E sa che coraggio ha avuto questo bel galantuomo? Di mandarmi un ritratto di lui e della sua bella di laggiù! Glielo posso far vedere. Stanno tutti e due con le teste, l’una appoggiata all’altra e le mani afferrate così, permette? Mi dia la mano… così! E ridono, ridono in faccia a chi li guarda: in faccia a me vuol dire. Ah, signor dottore, tutta la pietà è per chi parte e per chi resta niente! Ho pianto anch’io, si sa, nei primi tempi; ma poi mi sono fatta una ragione, e ora… ora tiro a campare e a spassarmela anche, se mi capita, visto che il mondo è fatto così!
Turbato dall’affabilità provocante, dalla simpatia che quella bella donna gli dimostrava, il giovane dottore abbasso gli occhi e disse:
– Ma perché voi, forse, avrete da vivere. Quella poverina, invece…
– Ma che! Quella? – rispose vivacemente Ninfarosa – Avrebbe da vivere anche lei, ih! Bella seduta e servita in bocca. Se volesse. Non vuole.
– Come? – domandò il dottore, alzando gli occhi, meravigliato.
Ninfarosa, nel vedergli quel bel faccino stupito, scoppiò a ridere, scoprendo i denti forti e bianchi, che davano a suo sorriso la bellezza splendida della salute.
– Ma sì! – disse. – Non vuole, signor dottore! Ha un altro figlio qua, l’ultimo, che la vorrebbe con sé e non le farebbe mancare mai nulla.
– Un altro figlio? Lei?
– Sissignore. Si chiama Rocco Trupìa. Non vuole saperne.
– E perché?
– Perché è proprio matta, non glielo dico? Piange giorno e notte per quei due che l’hanno abbandonata, e non vuole accettare neanche un tozzo di pane da quest’altro che la prega a mani giunte. Dagli estranei, sì.
Non volendo un’altra volta mostrarsi stupito, per nascondere il turbamento crescente il dottore s’accigliò e disse:
– Forse l’avrà trattata male, codesto figlio.
– Non credo, – disse Ninfarosa. – Brutto, sì; sempre ingrugnato; ma non cattivo. E lavoratore, poi! Lavoro, moglie e figliuoli: non conosce altro. Se vossignoria si vuol levare questa curiosità, non ha da camminare molto. Guardi, seguitando per questa via, appena a un quarto di miglio, uscito dal paese, troverà a destra quella che chiamano la Casa della Colonna. Sta lì. Ha in affitto una bella chiusa, che gli rende bene. Ci vada, e vedrà che è come le dico io.
Il dottore si levò. Ben disposto da quella conversazione, allettato dalla dolce mattinata di settembre, e più che mai incuriosito sul caso di quella vecchia, disse:
– Ci vado davvero.
Ninfarosa si recò le mani dietro la nuca per rassettarsi i capelli attorno allo spadino d’argento, e sogguardando il dottore con gli occhi che le ridevano promettenti:
– Buona passeggiata, allora, – disse. – E serva sua!
Superata l’erta, il dottore si fermò, per riprender fiato. Poche altre povere casette di qua e di là e il paese finiva; la viuzza immetteva nello stradone provinciale, che correva diritto e polveroso per più d’un miglio sul vasto altipiano, tra le campagne: terre di pane, per la maggior parte, gialle ora di stoppie. Un magnifico pino marittimo sorgeva a sinistra, come un gigantesco ombrello, meta ai signorotti di Farnia delle consuete loro passeggiate vespertine. Una lunga giogaja di monti azzurrognoli limitava, in fondo in fondo, l’altipiano; dense nubi candenti, bambagiose, stavano dietro ad essi come in agguato: qualcuna se ne staccava, vagava lenta pel cielo, passava sopra Monte Mirotta, che sorgeva dietro Farnia. A quel passaggio, il monte s’invaporava d’un’ombra cupa, violacea, e subito si rischiarava. La quiete silentissima della mattina era rotta di tratto in tratto dagli spari dei cacciatori al passo delle tortore o alla prima entrata delle allodole; seguiva a quegli spari un lungo, furibondo abbajare dei cani di guardia.
Il dottore andava di buon passo per lo stradone, guardando di qua e di là le terre aride, che aspettavano le prime piogge per esser lavorate. Ma le braccia mancavano, e spirava da tutte quelle campagne un senso profondo di tristezza e d’abbandono.
Ecco laggiù la Casa della Colonna, detta così perché sostenuta a uno spigolo da una colonna d’antico tempio greco, corrosa e smozzicata. Era una catapecchia, veramente; una roba, come i contadini di Sicilia chiamano le loro abitazioni rurali. Protetta, dietro, da una fitta siepe di fichidindia, aveva davanti due grossi pagliai a cono.
– Oh, della roba! – chiamò il dottore, che aveva paura dei cani, fermandosi davanti a un cancelletto di ferro arrugginito e cadente.
Venne un ragazzotto di circa dieci anni, scalzo, con una selva di capelli rossastri, scoloriti dal sole, e un pajo di occhi verdognoli, da bestiola forastica.
– C’è il cane? – gli domandò il dottore.
– C’è, ma non fa niente: conosce, – rispose il ragazzo.
– Sei figlio di Rocco Trupìa, tu?
– Sissignore.
– Dov’è tuo padre.
– Scarica il concime, di là, con le mule.
Sul murello davanti la roba stava seduta la madre, che pettinava la figliuola maggiore, la quale poteva aver presso a dodici anni, seduta su un secchio di latta, con un bambinello di pochi mesi su le ginocchia. Un altro bambino ruzzava per terra, tra le galline che non lo temevano, a dispetto d’un bel gallo che, impettito, drizzava il collo e scoteva la cresta.
– Vorrei parlare con Rocco Trupìa, – disse il giovane dottore alla donna. – Sono il nuovo medico del paese.
La donna rimase un tratto a guardarlo, turbata, non comprendendo che cosa potesse volere quel medico da suo marito. Si cacciò la camicia ruvida dentro il busto, che le era rimasto aperto da che aveva finito d’allattare il piccino, se lo abbottonò e si levò in piedi per offrire una sedia. Il medico non la volle, e si chinò a carezzare il bamboccetto per terra, mentre l’altro ragazzo scappava a chiamare il padre
Poco dopo s’intese lo scalpiccio di grossi scarponi imbullettati, e, di tra i fichidindia, apparve Rocco Trupìa, che camminava curvo, con le gambe larghe ad arco, e una mano alla schiena, come la maggior parte dei contadini.
Il naso largo, schiacciato, e la troppa lunghezza del labbro superiore, raso, rilevato, gli davano un aspetto scimmiesco; era rosso di pelo, e aveva la pelle del viso pallida e sparsa di lentiggini; gli occhi verdastri, affossati, gli guizzavano a tratti di torvi sguardi, sfuggenti.
Sollevò una mano per spingere un po’ indietro su la fronte la berretta nera, a calza, in segno di saluto.
– Bacio le mani a vossignoria. Che comandi ha da darmi?
– Ecco, ero venuto – cominciò il medico, – per parlarvi di vostra madre.
Rocco Trupìa si turbò:
– Sta male?
– No, – s’affrettò a soggiungere quello. – Sta al solito; ma così vecchia, capirete, lacera, senza cure…
Man mano che il dottore parlava, il turbamento di Rocco Trupìa cresceva. Alla fine, non poté più reggere, e disse:
– Signor dottore, mi deve dare qualche altro comando? Sono pronto a servirla. Ma se vossignoria è venuto qua per parlarmi di mia madre, Le chiedo licenza, me ne torno al lavoro.
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