Giovanni Pascoli
NUOVI POEMETTI
AI MIEI SCOLARI DI MATERA MASSA LIVORNO MESSINA PISA BOLOGNA
A voi che mi conoscete. A voi, ai quali non avrò sempre mostrato molto ingegno e assai dottrina, ma animo onesto uguale sincero, sì, sempre. A voi, ai quali non credo aver dato mai esempi di prosunzione e di ambizione, di malevolenza e di maldicenza. A voi, infine, ai quali io devo molto più che non diedi.
Perché vi devo l’abitudine di supporre sempre avanti me che scrivo, come ho avanti me che parlo, anime giovanili, che è dovere e religione non abbassare, raffreddare, violare.
Così voi mi avete beneficato.
Così io sono lieto d’aver unito alla divina poesia l’esercizio umano che più con la poesia si accorda: la scuola
Bologna, 24 giugno 1909.
Giovanni Pascoli
I
Oh! tutti i giorni e tante volte al giorno
s’erano visti! L’uno era in orecchi
sempre che udisse spittinire intorno.
E s’ei tornava a casa con due stecchi
o due vincigli, l’altro lo seguiva
da ramo a ramo. Erano amici vecchi.
Ma oggi, tutto maraviglia viva
nel petto rosso, l’uno alzava a scatti
la coda al dorso di color d’uliva.
Parea dicesse: – O dunque fa di fatti!? —
Ora alïava in terra tra lo sfagno,
ora volava in cima a gli albigatti.
Con gli occhi tondi aperti sul compagno
molleggiava sul cesto e su l’ontano.
L’altro sedeva al calcio d’un castagno,
con una vetta e un coltelluccio in mano…
II
Pareva savio, un altro! Il suo coltello
fece alla vetta torno torno un segno
uguale, netto, e un piccolo tassello.
Ed egli poi con arte e con ingegno
torse la buccia tra i due pugni, e trasse
fuor della buccia umido e bianco il legno.
Tagliò del legno quanto gli tappasse
quel cannoncello, ma non tutto e troppo.
Scese il pittiere su le stipe basse.
Provò se il fiato non avesse intoppo,
soffiando un poco, e si drizzò contento.
Frullò il pittiere sur un alto pioppo.
Poi, nella selva, coi capelli al vento,
lungo il ruscello, il fanciulletto Dore
col flauto verde annunzïò l’avvento
dei fiori brevi e dell’eterno amore.
III
O primo fiore! o bianca primavera!
Hai gli orli rossi, come li ha l’aurora,
e il sole biondo è nella tua raggiera!
Dore sonava. All’uccellino allora
sovvenne il nido. Alzò, partendo, il canto
che là, negli alti monti ove dimora,
canta alle solitudini soltanto.
I
Stette sul botro, stette su lo scoglio,
dritto, sonando il flauto di corteccia:
l’acqua rispose con un suo gorgoglio.
Intese la diana boschereccia
il vecchio bosco, e la vitalba volle
togliersi i bianchi bioccoli alla treccia.
E passò l’acqua e risalì sul colle:
per tutti i poggi il sufolo selvaggio
schiudeva i bocci, apriva le corolle.
Pioppi ed ontani pendere, al passaggio,
facean dai rami ciondoli e nappine;
chiedea l’avorno, s’era giunto maggio.
Mettea, chi fiori non potea, le spine;
mettea le gemme l’albero più brullo:
piovea la quercia, vergognando alfine,
le vecchie foglie a’ piedi del fanciullo.
II
E il bel fanciullo nella lieta ascesa
passò, col fresco flauto tra le dita,
presso macèe che furono una chiesa.
Pur v’è qualcosa della scorsa vita,
poiché vi canta all’apparir del nuovo
giorno ed al vespro il passero eremita.
Vi canta ai biacchi, che lì hanno il covo,
ai grilli, alle lucertole che destre
vengono a guizzi di tra il cardo e il rovo.
Dore intonò col sufolo silvestre
la sua fanfara del ritorno; e il suono
sparse per tutto un vago odor cilestre:
per tutto un casto odore, un odor buono,
dov’era già il sagrato, dove pare
fosse la croce, dove, ignoti, sono
sepolti i morti sotto il morto altare.
III
Viole caste, pallide viole!
Il fiore va, ma lascia un seme e il miele.
Aprite, o fiori, all’ape che vi vuole!
Il solitario udiva. Ecco, e fedele
alla rovina, prese alcun fuscello,
radiche e scorze, crini e ragnatele;
e fece il nido, oh! rozzo assai, ma bello.
I
E fu tra i campi e stie’ su l’altipiano
Dore, sonando. Ed ecco che un susino
bianco sbocciò sul verzicar del grano.
Come un sol fiore gli sbocciò vicino
un pesco, e un altro. I peschi del filare
parvero cirri d’umido mattino;
d’un bel mattino a nuvilette chiare
rosate in cima, che dall’Alpi d’oro
guàtino ancora palpitando il mare.
Usciano le api. Ed or s’udiva un coro
basso, un brusìo degli alberi fioriti,
un gran sussurro, un favellar sonoro.
Dicean del verno, si facean gl’inviti
di primavera. Per le viti sole
era ancor presto, e ne piangean, le viti,
a grandi stille, in cui fioriva il sole.
II
Nell’aia, sotto un prugno, sur un mucchio
di piote, egli chiamò le rondinelle,
Dore, col flauto di castagno in succhio.
Le voci fuori ne traea più belle
e più lontane. Ed ecco che su l’aia
vide due rondini alïare snelle.
Svolar le vide sotto la grondaia,
e poi sparire; e ritornar più tante,
tornare in quattro, in otto, in dieci, a paia.
E stava sotto il prugno tremolante
di bianchi fiori, tra il girar veloce
di tante nere rondinelle sante.
(Avean Gesù pur consolato in croce!)
Forse mancava a casa lor qualcosa:
parlavan alto, tutte ad una voce…
E su la soglia ecco che venne Rosa.
III
Torna la rondine! È fiorito il prugno!
Il prugno è in fiore, in succhio è già il castagno
Quale, di marzo, quale è in fior, di giugno.
Rosa tenea nel gomito il cavagno
pieno di ghiomi. Stette fissa al grido
del buon ritorno. Ognuna, il suo compagno!
L’albero ha il fiore e la rondine il nido.
I
E poi cantò la cinciallegra, e Rigo
tornò. T’avea sognata sul mattino,
t’avea sognata tra un odor di spigo,
sognata, o Rosa, in un candor di lino,
candor di fiori prima della foglia,
senza una foglia, o candido armellino!
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