Giovanni Pascoli - Nuovi poemetti (1909)

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Ora chi li rammenda e li riveste?
Ché tutti i giorni manca lor qualcosa.
Tutti i giorni! Non dico poi le feste…»

A lui così tu rispondesti, o Rosa.

III

E quando venne l’ora del ritorno,
Rosa era allegra, e Rigo, no, non era.
Andava cupo sul morir del giorno.

E chiedeva alcunché la capinera
alto cantando con la voce chiara;
oh! non a lui! Ché nella rosea sera

le rispondeva un’altra voce cara.

LA LODOLA

I

Cantar gli uccelli Rigo udì su l’alba.
Parlavan piano di bambagia e piume
e fili e peli e pappi di vitalba.

Dei lor lettini essi garrian tra lume
e scuro. E venne il sole. E frullò via
ciascuno, al bosco, al prato, al campo, al fiume.

– Casa mia! – pensò Rigo – una badia
tu sei davvero, con un fraticello
romito e solo, o trista casa mia!

E ci sarebbe pure tanto bello,
se lei vedessi tutte le mattine
girare in pianellette ed in guarnello… —

Così pensava, e, passo passo, alfine,
vide i cipressi neri della Pieve…
Rosa piegava una sua tela fine

che avea tessuta i giorni della neve.

II

Aveva i pésti, aveva pianto. «O Rosa!
Rosa, avete le guance scolorate,
avete pianto, Rosa. Per che cosa?

Voi fate troppo, autunno verno estate.
Rosa, se non lavate, voi stendete!
Rosa, se non tessete, voi filate!

Per voi non c’è momento di quïete.
Tutto tenete lindo netto asciutto,
lustrate ogni solaio, ogni parete.

Parete un uccelletto, biondo, sdutto,
snello, che cala becca salta frulla
in un minuto. E sola fate il tutto!

E siete sempre piccola fanciulla…»
«Povera mamma, è lei che non ha posa!
Senza mia madre non saprei far nulla».

A lui così tu rispondesti, o Rosa.

III

E’ ritornò più tristo, a capo chino.
Ed ecco, in mezzo al grande ciel sereno,
la lodoletta, uguale ad un puntino,

cantava; e poi, come venisse meno
dalla dolcezza, si gittò nel piano:
s’abbandonò sul nido suo terreno,

s’abbandonò sul nido suo tra il grano.

L’USIGNOLO

I

Su l’alba udì, ma piano, come fosse
un gran segreto, bisbigliar di bianche
ova e celesti con goccine rosse,

calde nel musco, sopra i pappi, ed anche
tra foglie secche… Prima ancor di giorno
volò ciascuno alle compagne stanche.

Ma tutto il giorno andava Rigo attorno
senza far nulla. Non guardò nell’orto
spighe di lilla e ciondoli d’avorno.

Violacciocche, e’ vi guardava torto
quando lo chiamavate con l’odore!
Ma verso sera egli là era, smorto…

E vide Rosa: aveva in grembo un fiore,
non facea nulla, ed era sola e muta.
S’udia lontano il sufolo di Dore.

Guardava in aria, a nulla. Era seduta.

II

Rigo le prese le due mani. «O Rosa,
ti voglio bene. Io t’amo e mi vergogno
di dirlo a te, di dirlo a te… mia sposa!

Non ho coraggio, Rosa, ed ho bisogno
che tu m’incuori. Il cuore trema: senti?
E non m’attento di parlar, che in sogno.

Anche tu sembra allora che ti attenti.
Se mostro un po’ di chiuder gli occhi e taccio,
tu entri in casa senza aprir battenti.

Tu vai, tu vieni… Oh! io non ti discaccio!»
Ecco e d’un braccio cinse a lei la vita,
ed essa gli si abbandonò sul braccio.

«Tu sei l’anima mia, sei la mia vita.
Battere, il cuore, senza il tuo, non osa
più. Respiriamo con la bocca unita!

Apriti, alfine, o mio bocciòl di rosa!»

III

Allor s’aprì la prima stella in cielo;
e dalla terra tacita e sorpresa
si levò un trillo come un lungo stelo.

Un’altra, un altro. Ad ogni stella accesa,
un nuovo canto. Un canto senza posa
correva ardendo lungo la distesa

del cielo azzurro. – È l’usignolo, o Rosa! —

IL NAUFRAGO – IL PRIGIONIERO

IL NAUFRAGO

I

Il mare, al buio, fu cattivo. Urlava
sotto gli schiocchi della folgore! Ora
qua e là brilla in rosa la sua bava.

Intorno a mucchi d’alga ora si dora
la bava sua lungi da lui. S’effonde
l’alito salso alla novella aurora.

Vengono e vanno in un sussurro l’onde.
Sembra che l’una dopo l’altra salga
per veder meglio. E chiede una, risponde

l’altra, spiando tra quei mucchi d’alga…

II

– Chi è? Non so. Chi sei? Che fai? Più nulla.
Dorme? Non so. Sì: non si muove. E il mare
perennemente avanti lui si culla.

Noi gli occhi aperti ti baciamo ignare.
Che guardi? Il vento ti spezzò la nave?
Il vento vano che, sì, è, né pare?

E tu chi sei? Noi, quasi miti schiave,
moviamo insieme, noi moriamo insieme
costì con un rammarichìo soave…

Siamo onde, onda che canta, onda che geme…

III

Tu guardi triste. E dunque tua forse era
la voce che parea maledicesse
nell’alta notte in mezzo alla bufera!

Noi siamo onde superbe, onde sommesse.
Onde, e non più. L’acqua del mare è tanta!
Siamo in un attimo, e non mai le stesse.

Ora io son quella che già là s’è franta.
E io già quella ch’ora là si frange.
L’onda che geme ora è lassù, che canta;

l’onda che ride, ai piedi tuoi già piange.

IV

Noi siamo quello che sei tu: non siamo.
L’ombre del moto siamo. E ci son onde
anche tra voi, figli del rosso Adamo?

Non sono. È il vento ch’agita, confonde,
mesce, alza, abbassa; è il vento che ci schiaccia
contro gli scogli e rotola alle sponde.

Pace! Pace! È tornata la bonaccia.
Pace! È tornata la serenità.
Tu dormi, e par che in sogno apra le braccia.

Onde! Onde! Onda che viene, onda che va…

LA MORTE DEL PAPA

I

«Oh! nonna! il Papa» uno gridò «sta male!»
un seggiolaio che da Montebono
salìa lungo Corsonna: «è sul giornale».

Andava all’Alpe, dove più non sono
che greggi erranti, e dove non si sente,
fuor che di foglie al vento, altro frastuono;

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