Avevi i piedi ignudi su la soglia,
tremavi come un armellino in fiore,
che trema tutto al vento che lo spoglia.
Era rimasto a Rigo, quel tremore;
nel cuore suo, che per due cuori accanto
avea battuto un attimo… o quante ore?
Gli era rimasta una dolcezza, un pianto
per lei come pel bimbo che non parla!
Or pregherebbe come avanti un santo…
E vide Rosa, e non ardì guardarla.
II
Cantava a lei, ch’era a ronzar nell’orto,
la cinciallegra, e l’era Rigo a mente,
quando lo vide, lieto insieme e smorto.
«Rigo!» E lasciò cadere la semente
che aveva in grembo; e vide sé, smarrita,
tutt’arruffata, con le vesti scente…
Si ravviò con le veloci dita:
pareano i segni che si fanno in chiesa.
Sfiorò d’un tratto fronte spalle vita.
Come pareva anche più bella, accesa
in viso, sfatto il nodo biondo, un piede
ignudo fuor della gonnella tesa!
«Oh! quant’è mai che non vi si rivede!»
«Il babbo è indietro con le sue faccende:
gli legherò due viti o tre, se crede…»
Poi mormorò: «Ben rende chi ben prende».
III
Squittian nel sole sopra la fanciulla,
chiedeano a lui le rondinelle nere,
chiedeano: – Ed ora non le dici nulla? —
Ma Rigo, no; perché volea vedere.
– Sei tu che vieni a me tutte le aurore?
Sei tu che torni a me tutte le sere?
Fa, quando s’apre, un fiore più rumore… —
I
E dicea – Cincin… pota Cincin… pota —
la cinciallegra; e un canto uscì dal prato
d’erba lupina: un’altra voce nota.
Potava il babbo; lasciò star pennato
forbici e torchi, e poi seguì, fischiando
anch’esso un po’, l’altro messaggio alato.
Prese la vanga (questo era il comando
dell’altro uccello) dalla punta d’oro;
andò la bricia a tirar su, con Nando.
Poi spicciolò nel campo il suo tesoro
di chicchi d’oro; e gli dicea, Fa piano!,
quell’incessante piagnisteo canoro.
Dicea: – Bada! Il granturco non è grano:
ben altra rappa nascerà da un chicco! —
Quasi parea glieli contasse in mano,
dicendo: – A uno a uno! Non sei ricco! —
II
Poi l’ammoniva ch’era giunta l’ora
di seminar la canipa. Ma poca!
E tristo a lungo ripetea, Lavora!
Ei t’ubbidiva, o poverella fioca
canipaiola: e seminò ben fitto,
dicendo: «Non mai vince, chi non gioca.
Il più del seme ai passeri lo gitto
per certo! È il meno che doventa tela».
Però d’intorno non s’udiva un zitto.
Ma il torcicollo a cui nulla si cela,
avanti o dietro, e che giammai non erra,
cantava pur la lunga sua querela.
Ei li vedeva, i figli della terra,
color di terra, che tendean, gl’ingordi!
Forse pensava: – E l’uomo muove guerra,
per via di loro, ai torcicolli e a’ tordi! —
III
Ma l’uomo fece un uomo d’una cappa
e d’un cappello. «E’ vi darà buon conto!»
diceva: e se n’andò con la sua zappa.
Scesero allora i passeri. Il tramonto
era dorato. Erano cento e cento…
– Oh! il poveruomo! Ha l’ali, al volo è pronto;
ma è confitto, e lo patulla il vento! —
I
Rigo, mentr’era buona ancor la luna,
potava. Aveva, a raccattar le brocche,
la bionda Rosa e la Viola bruna.
Allegre. Oh! d’un viticcio tra le ciocche
ridean mezz’ora! e poi dicean, ridenti,
col fascio in capo: «Siamo o no due sciocche?»
Rigo seguiva il loro andar con lenti
sguardi, col tralcio che torceva in mano,
ed un vinchietto tremolo tra i denti.
Ché s’affrettava. Era già alto il grano,
avean le gemme l’uva in bocca. – O vigna! —
pensava: – il cucco già non è lontano! —
Pensava: – Il ben nel presto non alligna. —
Ma sì, potava, poi torceva a modo
il capo buono, quel che fa la pigna;
e lo legava con vie più d’un nodo.
II
Sì: presto e bene. E già finiva il tutto,
quasi; e non s’era inteso il doppio accento
del cucco: – Un giorno molle, un giorno asciutto; —
non s’era inteso annoverar tra il vento
dolce le viti ancora da potare,
cuculïando il contadino lento.
Era all’ultima vite del filare
Rigo, e le donne all’ultimo fastello;
e venne il canto da di là del mare.
Con la sua mucca risalìa bel bello
la mamma, e il babbo la scontrava in via.
Dore si ritrovò col suo fratello.
«L’ultimo nodo!» Rigo gridò: «Via!»
Rosa premeva il fascio coi ginocchi…
C’erano tutti, in pace e compagnia,
col sol morente, che splendea, negli occhi.
III
Avea finito. E stettero alcun poco.
E teste bianche e teste bionde e nere
splendean sotto le nuvole di fuoco.
Udiano le due voci delle sere
di primavera, limpide e sonore,
così lontano che parean non vere,
così vicine che parean del cuore.
I
Su l’alba Rigo udì cantar gli uccelli.
Parlavan, ora che nessun li udiva,
tra loro, de’ lor piccoli castelli:
castelli in aria; in vetta a un melo, in riva
a un botro, appeso a un trave, dentro un muro
nel buco d’un castagno o d’un’oliva.
Il cinguettìo, così tra lume e scuro,
cessò d’un tratto. Era comparso il sole.
Sparì ciascuno nel bel giorno puro.
E Rigo in cuore preparò parole
da dire a lei, ridire, da vicino..
Oh! era tempo! E tutto può chi vuole.
Via via le rimutava in suo cammino,
per via le fece belle a poco a poco…
Rosa stendeva sopra un biancospino
l’accia filata nell’inverno al fuoco.
II
E’ parlò d’altro, e disse in fine: «O Rosa…»
Rosa aspettava. «Tutte l’altre vanno
a nozze; e voi non vi farete sposa?»
«Mia madre non è quella d’or un anno.
Come faceva! come lavorava!
Ma ora fa le scale con l’affanno.
Viola è sempre piccola, ed è brava
ma per le bestie. Ora, chi fa mangiare?
chi cuce un po’? chi tesse un po’? chi lava?
Da fare, in una casa, non appare,
ma c’è n’è tanto. E i bimbi? se sapeste!
Dore è piccino, a me mi sembra un mare.
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