Emilio Salgari - I Pirati della Malesia

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Erano allora giunti alle prime capanne del villaggio. Proprio in quel momento i prahos, carichi del bottino tolto alla Young-India, entravano nella baia.

Gli equipaggi, scorgendo il loro capo, lo salutarono con evviva entusiastici, agitando freneticamente le armi.

– Viva l’invincibile Tigre della Malesia! – urlavano.

– Viva il nostro valoroso capitano! – rispondevano i pirati del villaggio.

Sandokan, con un solo gesto della mano, chiamò attorno a sé tutti i pirati, i quali non erano meno di duecento, la maggior parte malesi e dayachi del Borneo, uomini coraggiosi come leoni, feroci come tigri, pronti a farsi uccidere per il loro capo che adoravano come una divinità.

– Ognuno mi ascolti – diss’egli. – La Tigre della Malesia sta per intraprendere una spedizione che forse costerà la vita a gran numero di noi.

Tigrotti di Mompracem, sulle coste del Borneo regna un uomo, figlio d’una stirpe che tanto male ci inflisse e che noi odiamo, un inglese, tiene in sua mano un mio amico, il fidanzato di questa povera pazza che è cugina della defunta regina di Mompracem.

Un urlo immenso s’alzò attorno a Sandokan.

– Lo si salvi!… lo si salvi!…

– Tigrotti di Mompracem, io voglio salvare il fidanzato di questa infelice.

– Lo salveremo, Tigre della Malesia, lo salveremo!… Chi lo tiene prigioniero?

– Il rajah James Brooke, lo sterminatore dei pirati.

Questa volta non fu un urlo quello che irruppe dai petti dei pirati, fu un ruggito d’ira da far fremere:

– Morte a James Brooke!…

– Morte allo sterminatore dei pirati!

– A Sarawak!… tutti a Sarawak!…

– Vendetta, Tigre della Malesia!

– Silenzio! – tuonò la Tigre della Malesia. – Karà-Olò, fatti innanzi.

Un uomo gigantesco, dalla pelle giallastra, le membra cariche di anelli di rame e il petto adorno di perle di vetro, di denti di tigre, di conchiglie e di ciuffi di capelli, gli si avvicinò, impugnando un pesante sciabolone che si allargava verso l’estremità.

– Quanti uomini conta la tua banda? – gli chiese Sandokan.

– Ottanta – rispose il pirata.

– Hai paura di James Brooke?

– Non ho mai avuto paura di nessuno. Quando la Tigre della Malesia mi ordinerà di gettarmi su Sarawak, io l’assalirò e dietro a me verranno tutti i miei uomini.

– T’imbarcherai con l’intera banda sulla Perla di Labuan. Non occorre che ti dica che il praho deve essere zeppo di palle e di polvere.

– Sta bene, capitano.

– Ed io, che cosa dovrò fare, capitano? – chiese un vecchio malese, sfigurato da più di venti cicatrici.

– Tu, Nayala, rimarrai a Mompracem con le altre bande; lascia che vadano i giovani a Sarawak!

– Rimarrò qui, giacché me l’ordinate, e difenderò l’isola finché avrò una goccia di sangue nelle vene.

Sandokan e Yanez si intrattennero ancora a parlare coi capitani delle bande, indi salirono nella grande capanna.

I loro preparativi furono brevi. Nascoste sotto le vesti alcune borse contenenti grossi diamanti, per un valore di forse due milioni, e scelte le carabine, le pistole, le scimitarre ed i kriss dalla punta acuta e avvelenata, ridiscesero verso la costa.

La Perla di Labuan, coperta di vele, ondeggiava nella piccola rada, impaziente di uscire in mare. Sul ponte stavano schierati gli ottanta dayachi di Karà-Olò, pronti a manovrare.

– Tigrotti – disse Sandokan, volgendosi verso i pirati affollati sulla spiaggia, – difendete la mia isola. – La difenderemo – risposero in coro i tigrotti di Mompracem, agitando le armi.

Sandokan, Yanez, Kammamuri e la vergine della pagoda d’Oriente salirono in una imbarcazione e raggiunsero la nave, la quale, sciolte le gomene, navigò verso l’alto mare salutata da urla di:

– Evviva la Perla di Labuan!…Evviva la Tigre della Malesia!… Evviva i tigrotti di Mompracem!

6. Da Mompracem a Sarawak

La Perla di Labuan, con la quale il capo dei pirati di Mompracem stava per intraprendere l’audace spedizione, era uno dei più grandi, dei più bei prahos che solcassero gli ampi mari della Malesia.

Stazzava centocinquanta o centosessanta tonnellate, il triplo dei prahos ordinari.

Strettissima aveva la carena, svelte le forme, alta e solida la prua, fortissimi gli alberi e amplissime le vele, i cui pennoni non misuravano meno di sessanta metri.

A vento largo, doveva filare come una rondine marinara e lasciarsi di gran lunga indietro i più rapidi steamers e i più veloci velieri d’Asia e d’Australia.

Non aveva nulla che potesse farla credere un legno corsaro. Né cannoni in vista, né equipaggio numeroso, né sabordi. Pareva un elegante praho mercantile con un carico prezioso nella stiva, in rotta per la Cina o per le Indie. Il più astuto lupo di mare si sarebbe ingannato.

Chi però fosse sceso nella stiva avrebbe potuto vedere di che merci il praho era carico. Non erano né tappeti, né ori, né spezie, né thè: erano bombe, fucili, pugnali, sciaboloni d’arrembaggio e barili di polvere in quantità sufficiente per far saltare due fregate di alto bordo.

Chi poi fosse entrato sotto il gran casotto (attap), avrebbe potuto vedere sei cannoni di lunga portata, posti sulle loro carrette, pronti a vomitare uragani di mitraglia e di palle, nonché due mortai da grosse bombe, grappini d’arrembaggio, asce, scuri e pesanti parangs, le armi favorite dei dayachi del Borneo. Girate le innumerevoli rocce e scogliere madreporiche, che rendevano inaccessibile l’entrata della piccola baia alle grosse navi, la svelta Perla di Labuan mise la prua verso la costa del Borneo, e precisamente verso il capo Sirik, che chiude ad occidente la vasta insenatura di Sarawak.

Il tempo era splendido e il mare tranquillo: in cielo pochi cirri color di fuoco: in mare nulla. Non una vela, non una traccia di fumo che segnalasse uno steamer all’orizzonte, non onde. La immensa distesa d’acqua color piombo era perfettamente tranquilla, quantunque soffiasse un leggero venticello fresco.

In meno di venti minuti, il veloce legno raggiunse l’estrema punta sud dell’isola, dietro la quale finiva di sfasciarsi lo scheletro dell’Young-India e prese il largo, inclinato civettuolamente a babordo, lasciando dietro la poppa una linea perfetta. Yanez e Kammamuri, condotta la vergine della pagoda nella più vasta e bella cabina di poppa, erano risaliti in coperta, dove Sandokan passeggiava con le braccia incrociate sul petto e il capo chino, immerso in profondi pensieri.

– Che ti pare del nostro legno? – chiese Yanez al maharatto, il quale, appoggiato al coronamento di poppa, guardava attentamente le coste dirupate di Mompracem che rapidamente svanivano in lontananza.

– Non mi ricordo di aver navigato su di un legno rapido come questo, signor Yanez – rispose il maharatto. – I pirati, a quanto pare, sanno scegliere i loro navigli.

– Hai ragione, mio caro. Non c’è piroscafo che tenga testa a questa valorosa Perla di Labuan. In pochi giorni, se questo vento non diminuisce, noi saremo in vista delle coste di Sarawak.

– Senza combattimenti?

– Ciò non si può sapere. In questo mare si conosce la Perla di Labuan e molti sono gli incrociatori che battono le coste del Borneo. Potrebbe darsi il caso che a qualcuno di loro saltasse il ticchio di misurarsi con la Tigre della Malesia.

– E se ciò accadesse?

– Perbacco, accetteremmo la sfida. La Tigre della Malesia, amico mio, non rifiuta mai un combattimento.

– Non vorrei che ci assalisse qualche grosso vascello.

– Non ci farebbe paura. Abbiamo nella stiva tante sciabole e tanti fucili da armare la popolazione di una città, tante bombe da affondare una flotta intera e tanta polvere da far saltare mille case.

– Ma solo ottanta uomini!

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