Emilio Salgari - I Pirati della Malesia
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– Perché cacciava le tigri della jungla.
– Un uomo che affronta le tigri non può essere che un coraggioso. Senza conoscerlo, sento già di amare quel fiero indiano. Tira avanti: divento impaziente.
– Una sera Tremal-Naik ritornava dalla jungla. Era una sera magnifica, una vera sera del Bengala; dolce e profumata era l’aria, ancor fiammeggiante l’orizzonte e debolmente stellato il firmamento.
Aveva già percorso un lungo tratto senza incontrare anima viva, quando gli si rizzò dinanzi, a meno di venti passi, fra un cespuglio di mussenda, una giovinetta di meravigliosa bellezza.
– Chi era?
– Era una creatura dalla carnagione rosea, coi capelli neri e gli occhi immensi.
Lo fissò per un istante con sguardo malinconico, poi sparve. Tremal-Naik fu così vivamente toccato da quell’apparizione che arse d’amore per la fanciulla sconosciuta.
Pochi giorni dopo un delitto veniva commesso sulle rive di un’isola che si chiama Raimangal. Uno dei nostri, che si era recato colà a cacciare la tigre, veniva trovato cadavere con un laccio al collo.
– Oh!… – esclamò il pirata, al colmo della sorpresa. – Chi poteva aver strangolato un cacciatore di tigri?
– Siate paziente e lo saprete. Tremal-Naik, come vi dissi, era un uomo coraggioso. Mi prese con sé e sbarcammo a mezzanotte a Raimangal, risoluti a vendicare lo sventurato nostro compagno.
Dapprima udimmo rumori misteriosi che uscivano di sotto terra, poi dal tronco di un gigantesco banian sbucarono parecchi uomini nudi, bizzarramente tatuati. Quegli uomini erano gli assassini del povero cacciatore di tigri.
– Ebbene? – chiese il pirata, i cui occhi brillavano di gioia.
– Tremal-Naik non esitava mai. Un colpo di carabina bastò per gettare a terra il capo di quegli indiani, poi fuggimmo.
– Bravo Tremal-Naik! – esclamò la Tigre con entusiasmo. – Continua. Mi diverto più a udire questa storia che ad abbordare un vascello carico di minerale giallo.
– Il mio padrone, per far perdere le tracce a quegli uomini che ci inseguivano, si separò da me e si rifugiò in una grande pagoda dove ritrovò… indovinate chi?
– La giovanetta forse?
– Sì, la giovanetta che era prigioniera di quegli uomini.
– Ma chi erano?
– Gli adoratori di una divinità feroce che altro non brama che vittime umane. Si chiama Kalì.
– La terribile dea dei thugs indiani?
– La dea degli strangolatori.
– Quegli uomini sono più feroci delle tigri. Oh! io li conosco – disse il pirata. – Ne ebbi qualcuno nella mia banda.
– Un thug nella tua banda? – esclamò il maharatto, rabbrividendo. – Sono perduto.
– Non aver paura, Kammamuri; un tempo ne ebbi qualcuno, ma ora non ne ho più. Continua il tuo racconto.
– La fanciulla, che amava ormai il mio padrone, conoscendo quali pericoli lo circondavano, lo scongiurò di partire all’istante; ma egli non era uomo da aver paura. Rimase là in attesa dei feroci thugs, risoluto a misurarsi con loro e, potendo, a rapire la prigioniera. Ma ohimè! Aveva troppo confidato nelle sue forze. Poco dopo dodici uomini armati di laccio entravano e si scagliavano contro di lui e, malgrado la sua ostinata difesa, veniva atterrato, legato e poi pugnalato dal capo degli strangolatori, il feroce Suyodhana.
– E non morì? – chiese Sandokan, che si interessava al racconto.
– No – continuò Kammamuri, – non morì poiché più tardi io lo ritrovai in mezzo alla jungla, insanguinato, col pugnale ancora infisso nei petto, ma vivo.
– E perché lo avevano gettato nella jungla? – chiese Yanez.
– Perché le tigri lo divorassero. Lo portai nella nostra capanna e dopo molte cure guarì, ma il suo cuore era rimasto ferito dagli occhi neri della giovinetta… Un giorno, dopo essere scampato a parecchi agguati tesigli dai thugs, risolvette di partire per Raimangal, deciso a tutto pur di rivedere l’amata creatura. C’imbarcammo di notte, durante un uragano, scendemmo il Mangal e approdammo all’isola.
Nessun uomo vegliava all’entrata dei banian e ci sprofondammo sotto terra addentrandoci in oscurissimi corridoi. Avevamo saputo che i thugs, non essendo riusciti ad estirpare dal cuore della giovinetta dagli occhi neri l’amore per Tremal-Naik, avevano deciso di bruciarla viva, per calmare l’ira della mostruosa dea, e noi correvamo a salvarla.
– Ma perché era proibito a quella donna di amare? – chiese Yanez.
– Perché era la guardiana della pagoda consacrata alla dea Kalì e, come tale, doveva mantenersi pura.
– Che razza di bricconi!
– Continuo: dopo aver percorso lunghi corridoi, uccidendo le sentinelle, ci trovammo in una immensa sala sostenuta da cento colonne e illuminata da una infinità di lampade che spandevano all’intorno una luce spettrale. Duecento indiani, coi lacci in mano, erano seduti all’intorno. In mezzo si ergeva la statua di Kalì: dinanzi a lei, il bacino dove nuota un pesciolino rosso, che si dice contenga l’anima della dea; e più oltre si levava un gran rogo.
Alla mezzanotte ecco apparire il capo Suyodhana coi suoi sacerdoti che trascinavano l’infelice ragazza, ubriacata di oppio e di misteriosi profumi. Ella non opponeva più alcuna resistenza.
Già non distava che pochi passi dal rogo; già un uomo aveva acceso una fiaccola e i thugs avevano intonato la preghiera dei defunti, quando io e Tremal-Naik ci slanciammo come leoni in mezzo all’orda, scaricando le nostre armi a destra e a sinistra. Sfondare quella muraglia umana, strappare la giovinetta dalle mani dei sacerdoti e fuggire attraverso le oscure gallerie, fu l’affare di un sol momento. Dove fuggivamo? Nessuno di noi lo sapeva, non ci si pensava in quel supremo istante. Non cercavamo che di guadagnare strada sui thugs, i quali, rimessisi dallo spavento, si erano subito lanciati sulle nostre tracce! Corremmo per una buona ora addentrandoci sempre più nelle viscere della terra finché, trovato un pozzo, ci calammo entro una caverna che non aveva uscite. Quando cercammo di risalire era troppo tardi: i thugs ci avevano rinchiusi dentro!
– Maledizione! – esclamò Sandokan. – Di’ su, maharatto mio; la tua storia è interessantissima. Dimmi, siete fuggiti?
– No.
– Mille tuoni!
– Ci assediarono strettamente, ci assetarono accendendo attorno alla caverna immensi fuochi che ci arrostivano vivi, poi lasciarono irrompere su di noi un getto d’acqua alla quale era stato mescolato non so quale narcotico. Appena ci fummo dissetati, stramazzammo al suolo come colpiti da sincope e cademmo senza resistenza nelle mani dei nostri nemici.
Eravamo ormai rassegnati a morire, poiché nessuno di noi ignorava che la pietà è sconosciuta ai thugs, nondimeno fummo risparmiati. La morte sarebbe stata troppo dolce per noi e nella mente infernale di Suyodhana, il capo degli strangolatori, si era già formato un terribile disegno, che aveva per scopo di svellere dal cuore della giovinetta l’amore per Tremal-Naik e di sbarazzarsi del mio padrone, che avrebbe potuto diventare per loro un formidabile nemico. Dovete sapere che a quel tempo un uomo prode, risoluto, cui era stata rapita la figlia dai thugs, faceva loro una guerra accanita. Quell’uomo era un inglese e si faceva chiamare capitano Macpherson.
Centinaia e centinaia di thugs erano caduti per sua mano, e giorno e notte egli inseguiva gli altri senza tregua, potentemente aiutato dal governo inglese. Né i lacci degli strangolatori, né i pugnali dei più fanatici settari erano giunti a colpirlo, né le più infernali trame avevano avuto successo contro di lui.
Suyodhana, che lo temeva assai, gli lanciò contro Tremal-Naik promettendogli per compenso la mano della vergine della pagoda d’Oriente, così infatti aveva nome la fanciulla dai capelli neri amata dal mio padrone. La testa del capitano doveva essere il regalo di nozze!
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