Emilio Salgari - I Pirati della Malesia

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Il mare a poco a poco si era calmato. Solamente attorno ai frangenti spumeggiava e muggiva, sollevandosi in larghe ondate.

Il praho, guidato da quegli abili ed intrepidi marinai, superò le scogliere, balzando e rimbalzando sui cavalloni come una palla elastica e s’allontanò con fantastica rapidità lasciandosi dietro una scia candidissima, in mezzo alla quale giocherellavano mostruosi pesci-cani.

In capo a dieci minuti raggiunse la punta estrema dell’isola, la girò senza rallentare la sua velocità, e navigò verso un’ampia baia che aprivasi dinanzi a un grazioso villaggio. Composto di venti e più solidissime capanne, difeso da una triplice linea di trincee armate di grossi cannoni e da numerosissime spingarde, da alte palizzate e da profondi fossati irti di aguzze punte di ferro.

Un centinaio di malesi semi-nudi, ma tutti armati fino ai denti, uscirono dalle trincee e si slanciarono verso la spiaggia, mandando urla selvagge, agitando pazzamente kriss avvelenati, scimitarre, scuri, picche, carabine e pistole.

– Dove siamo? – chiese Kammamuri con inquietudine.

– Nel nostro villaggio – rispose il portoghese.

– È qui che abita la Tigre della Malesia?

– Abita lassù, dove ondeggia quella bandiera rossa.

Il maharatto alzò il capo, e sulla cima di una gigantesca rupe che cadeva a picco sul mare, scorse una gran capanna difesa da parecchie palizzate, su cui si agitava maestosamente una grande bandiera rossa adorna d’una testa di tigre.

– Andremo lassù? – domandò con commozione.

– Sì, amico – rispose Yanez.

– Come mi riceverà?

– Come si deve accogliere un coraggioso.

– La vergine della pagoda d’Oriente verrà con noi?

– Per ora no.

– Perché? – Perché quella donna somiglia a…

S’interruppe. Una rapida commozione aveva alterato improvvisamente i suoi lineamenti e i suoi occhi si inumidirono. Kammamuri se ne accorse.

– Voi mi sembrate commosso, signor Yanez – disse.

– T’inganni – rispose il portoghese, tirando a sé la ribolla per evitare la punta estrema di una scogliera che riparava la baia. – Sbarchiamo, Kammamuri.

Il praho si era arenato con la prua verso la costa.

Il portoghese, Kammamuri, la pazza e i pirati sbarcarono.

– Conducete questa donna nella migliore abitazione del villaggio – disse Yanez, additando ai pirati la pazza.

– Le faranno del male? – domandò Kammamuri.

– Nessuno ardirà toccarla – disse Yanez. – Le donne qui si rispettano forse più che in India ed in Europa. Vieni, maharatto.

Si diressero verso la gigantesca rupe e salirono una stretta scala scavata nel vivo masso, lungo la quale erano scaglionate sentinelle armate di carabine e di scimitarre.

– Perché tante precauzioni? – chiese Kammamuri.

– Perché la Tigre della Malesia ha centomila nemici.

– Non è amato dunque il capitano?

– Noi lo idolatriamo, ma gli altri… Se tu sapessi, Kammamuri, come gl’inglesi lo odiano. Eccoci giunti: non temere nulla.

Infatti giungevano allora dinanzi alla gran capanna, difesa pur questa da trincee, da gabbionate, da fossati, da cannoni, da mortai e da spingarde del secolo precedente.

Il portoghese spinse prudentemente una grossa porta di legno di teck, capace di resistere al cannone, e introdusse Kammamuri in una stanza tappezzata di seta rossa, ingombra di carabine d’Europa, di scuri, di kriss malesi, di yatagan turchi, di pugnali, di bottiglie, di pizzi, di stoffe, di maioliche della Cina e del Giappone, di mucchi d’oro, di verghe d’argento, di vasi riboccanti di perle e di diamanti.

Nel mezzo, semisdraiato su di un ricco tappeto di Persia, Kammamuri scorse un uomo dal volto abbronzato, vestito sfarzosamente all’orientale, con vesti di seta trapunta in oro e lunghi stivali di pelle pure rossa a punta rialzata.

Quell’individuo non dimostrava più di trentaquattro o trentacinque anni. Era alto di statura, stupendamente sviluppato, con una testa superba, una capigliatura folta, ricciuta, nera come l’ala di un corvo, che gli cadeva in pittoresco disordine sulle robuste spalle.

Alta era la sua fronte, scintillante lo sguardo, sottili le labbra, atteggiate ad un sorriso indefinibile, magnifica la barba che dava ai suoi lineamenti un aspetto fiero che incuteva ad un tempo rispetto e paura.

Nell’insieme, s’indovinava che quell’uomo possedeva la ferocia di una tigre, l’agilità di una scimmia e la forza di un gigante.

Appena vide entrare i due personaggi, con uno scatto si alzò a sedere, fissando su di loro uno di quegli sguardi che penetrano nel più profondo dei cuori.

– Che cosa mi rechi? – chiese con voce metallica, vibrante.

– La vittoria, innanzi tutto – rispose il portoghese. – Ti conduco però un prigioniero. -

La fronte di quell’uomo s’oscurò. – È forse quell’indiano l’individuo che tu hai risparmiato? – domandò egli, dopo qualche istante di silenzio.

– Sì, Sandokan. Ti dispiace, forse?

– Tu sai che rispetto i tuoi capricci, amico mio.

– Lo so, Tigre della Malesia.

– E che cosa vuole quell’uomo?

– Diventare un tigrotto. L’ho veduto battersi, è un eroe.

Lo sguardo della Tigre divenne lampeggiante. Le rughe che solcavano la sua fronte scomparvero come le nubi sotto un vigoroso colpo di vento.

– Avvicinati – disse all’indiano.

Kammamuri, ancora sorpreso di trovarsi dinanzi al leggendario pirata che per tanti anni aveva fatto tremare i popoli della Malesia, si fece innanzi.

– Il tuo nome? – chiese la Tigre.

– Kammamuri.

– Sei?

– Maharatto.

– Un figlio di eroi dunque?

– Dite il vero, Tigre della Malesia – disse l’indiano con orgoglio.

– Perché hai lasciato il tuo paese?

– Per recarmi a Sarawak.

– Da quel cane di James Brooke? – chiese la Tigre con accento d’odio.

– Non so chi sia questo James Brooke.

– Meglio così. Chi hai a Sarawak per recarti laggiù?

– Il mio padrone.

– Cosa fa? È soldato del rajah, forse?

– No, è prigioniero del rajah.

– Prigioniero? E perché?

L’indiano non rispose.

– Parla – disse brevemente il pirata. – Voglio sapere tutto.

– Avrete la pazienza di ascoltarmi? La storia è lunga quanto terribile.

– Le storie terribili e sanguinose piacciono alla Tigre; siedi e narra.

4. Un terribile dramma

Kammamuri non se lo fece ripetere due volte. Si sedette in mezzo ad un mucchio di velluti sgualciti, bruttati qua e là di macchie, e, dopo essere rimasto alcuni istanti silenzioso, come per raccogliere le idee, disse: – Tigre della Malesia, avete udito parlare delle Sunderbunds del sacro Gange?

– Non conosco quelle terre – rispose il pirata, – ma so cos’è il delta di un fiume. Tu vuoi parlare dei banchi che ostruiscono la foce della grande fiumana.

– Sì, dei grandi ed innumerevoli banchi coperti di canne giganti e popolati di feroci animali che si estendono per molte miglia dalla foce dell’Hugly a quella del Gange. Il mio padrone era nato là in mezzo, in un’isola che si chiama la jungla nera. Era bello, era forte, era prode, il più prode che io abbia incontrato nella mia vita avventurosa. Nulla lo faceva tremare: né il veleno del cobra-capello, né la forza prodigiosa del pitone, né gli artigli della grande tigre del Bengala, né il laccio dei suoi nemici.

– Il suo nome? – chiese il pirata. – voglio conoscere questo eroe.

– Si chiamava Tremal-Naik, il cacciatore di tigri e serpenti della jungla nera.

La Tigre della Malesia a quel nome si alzò, guardando fisso il maharatto.

– Cacciatore di tigri, hai detto? – domandò.

– Sì.

– Perché tale soprannome?

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