Emilio Salgari - Il figlio del Corsaro Rosso
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– Voi… – balbettò.
– Non parlate, signore.
Un sorriso contorse le labbra del conte.
– Sono… un uomo… di guerra… – disse con voce spezzata. – Sono finito… è vero?…
Il dottore scosse il capo senza rispondere.
– Quanti minuti… ho… di vita? Parlate… lo voglio.
– Potreste vivere anche un paio d’ore, se non vi levo il pezzo di spada.
– E levandolo?… ditelo!
– Pochi minuti forse, signor conte.
– Mi… basteranno… per vendicarmi… Ascoltatemi…
– Se parlate troppo vi ucciderete anche piú presto.
Un altro sorriso comparve sulle smorte labbra del capitano.
– Ascoltatemi… – disse con suprema energia. – Sulla lama… vi è inciso… un nome… quello del mio avversario… Voglio conoscerlo… prima di morire.
– Bisognerebbe levarvela dal petto.
Il conte fece un cenno affermativo.
– Lo volete proprio? – chiese il dottore.
– Già… morrò… egualmente.
– Maurico, le pinze.
L’aiutante portò due piccolissime tenaglie, un pacco di cotone e delle fasce, per arrestare subito il sangue che sarebbe sgorgato dalla ferita.
– Presto… – mormorò il conte.
Il medico afferrò la lama e la trasse, a piccole scosse, dal corpo. Il conte aveva stretto le labbra per non gridare. Dall’alterazione del viso e dal sudore vischioso che gli copriva la fronte, si capiva quanto doveva soffrire.
Fortunatamente quella dolorosissima operazione non durò che pochi secondi: subito dalla ferita sgorgò un getto di sangue che l’aiutante fermò con delle bende.
– Il nome… il nome… – balbettò il capitano con voce spenta – presto… muoio…
Il dottore pulí la lama lorda di sangue con un asciugamano, e vide apparire delle lettere incise sull’acciaio, sormontate da una piccola corona di conte.
– Enrico di Ventimiglia – lesse.
Il capitano, nonostante la sua estrema debolezza ed il dolore che lo tormentava, si era quasi alzato a sedere, esclamando con voce rauca:
– Ventimiglia!… Un nome di corsari: il Rosso… il Verde… il Nero… Un Ventimiglia! Tradimento!
– Conte, vi uccidete! – gridò il medico.
– Ascoltate… ascoltate… la fregata… giunta ieri… è corsara… la comanda quello vestito di rosso… correte dal governatore… avvertitelo… fatela abbordare… presto… la città è in pericolo… Muoio… ma vendicheranno la mia morte… Ah!
Il capitano era ricaduto sui guanciali. Rantolava ed impallidiva a vista d’occhio.
Il sangue filtrava attraverso le filacce e le bende arrossando la camicia e la giubba. Ad un tratto una spuma sanguigna comparve sulle labbra del disgraziato, poi le palpebre si abbassarono lentamente sugli occhi già spenti. Il capitano degli alabardieri di Granata era morto.
– Maestro, – disse l’aiutante al medico, il quale teneva sempre in mano il pezzo di lama – che cosa farete ora?
– Andrò ad avvertire subito il governatore. I Ventimiglia sono stati i piú tremendi corsari del golfo del Messico. Qualche loro figlio o parente è ricomparso in queste acque. Guai a noi se non si catturasse!… Non ne parlare con nessuno, nemmeno con la marchesa.
– Sarò muto, maestro.
– Tu andrai ad avvertire il colonnello del reggimento di quanto è accaduto, perché venga trasportato in caserma, questo povero conte.
– E voi?
– Corro dal governatore.
Avvolse nell’asciugamano la lama, poi aprí la porta. La marchesa di Montelimar, in preda ad una visibile commozione, aspettava nella sala vicina insieme al maggiordomo e alle sue cameriere.
– Dunque, dottore? – chiese.
– È morto, marchesa – rispose Escobedo. – La ferita era terribile.
– E non vi ha detto chi lo ha ucciso?
– Non ha potuto parlare; deve aver avuto un duello, perché non aveva piú la spada nella guaina.
– E ora?
– Penso io a tutto. Prima dell’alba il capitano sarà portato nella caserma o nel suo appartamento. Si potrebbe malignare sul conto vostro, se lo lasciassimo qui.
– È quello che temevo.
– Buona notte, marchesa. M’incarico io di ogni cosa.
CAPITOLO III. LA CORSA AI GALLI
Il giorno dopo, una folla gioconda, vestita di costumi svariati e variopinti, si accalcava nei dintorni del grandioso palazzo dei Montelimar. Vi erano ufficiali, soldati, piantatori, marinai e contadini, e non mancavano nemmeno le señore e le señoritas in abiti elegantissimi, con la graziosa manta sulle alte pettinature, quantunque lo spettacolo che stava per incominciare non dovesse interessarle gran che.
Si trattava della corsa al gallo, già annunziata dalla marchesa al conte de Miranda, o meglio al conte di Ventimiglia.
I coloni spagnuoli hanno sempre avuto due grandi passioni: i tori ed i galli! Strano contrasto fra una bestia enorme e temibilissima ed un povero ed innocuo pennuto!
Eppure non badavano a spendere per possedere dei buoni galli, specialmente quelli destinati a combattersi l’un l’altro, e scommettevano in questo barbaro gioco somme enormi.
Ma uno dei loro divertimenti favoriti era la corsa al gallo, inventata forse con lo scopo di formare degli abilissimi cavalieri, dei quali si aveva purtroppo molto bisogno per dare la caccia ai bucanieri, i formidabili alleati dei filibustieri, che minacciavano senza tregua le città di terra, mentre gli altri si occupavano di quelle marittime.
Il giuoco era semplicissimo, tuttavia non mancava di destare un vivissimo interesse fra i numerosi spettatori, sempre pronti a scommettere una piastra come anche mille.
Su una via diritta scavavano quattro o cinque buche e vi seppellivano altrettanti galli, in modo che tenessero fuori soltanto il collo, tenendo fermi quei poveri volatili con della sabbia e con delle pietre, ma in modo però che non avessero troppo a soffrire.
I cavalieri che prendevano parte a quello strano divertimento erano obbligati a passare a corsa sfrenata, curvarsi fino a terra e con una mano strapparli.
Non era una manovra facile, poiché esponeva il cavaliere ad una caduta che poteva avere gravissime conseguenze, anche se salutata da una clamorosa risata da parte degli spettatori. Il premio ordinariamente era un bacio sulla mano o sulla gota della piú bella signora che assisteva al divertimento; galanteria spagnuola che i rudi Yankees del diciottesimo secolo dovevano piú tardi imitare.
Quattordici cavalieri, montati tutti sui piccoli ed eleganti cavalli andalusi, si erano presentati alla corsa, allineandosi dinanzi al palazzo dei Montelimar. Erano quasi tutti giovanotti, figli di piantatori o di pezzi grossi dell’ammiragliato, ansiosi di baciare le gote della piú bella vedova di San Domingo.
Spiccava però tra loro il conte de Miranda, sempre vestito di rosso, elegantissimo, che montava un cavallo andaluso tutto nero, dagli occhi ardenti, acquistato la mattina stessa a caro prezzo. Vedendo comparire la marchesa sullo scalone di marmo del palazzo, il conte si era levato il feltro rosso adorno d’una lunghissima piuma e si era chinato sul cavallo.
La bella vedova rispose con un sorriso e con un grazioso gesto della mano, poi prese subito posto in una specie di tribuna eretta dinanzi ai palazzo, insieme al suo maggiordomo e alle donne della casa.
Quattro galli erano stati seppelliti, ad una distanza di venti metri l’uno dall’altro. I disgraziati pennuti facevano sforzi disperati per liberarsi da quella incomoda prigionia, allungando il collo e cantando a piena gola, ma le pietre li trattenevano e impedivano loro di fuggire.
Due giudici di campo, due vecchi ufficiali in ritiro, si erano collocati ai due lati dei cavalieri per regolare la corsa.
Il pubblico, che era diventato numerosissimo, scommetteva intanto con vero furore e, sia per simpatia, sia per la bella figura, puntava di preferenza sul figlio del Corsaro Rosso.
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