Emilio Salgari - Il figlio del Corsaro Rosso

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– Signor conte, – disse – io non lascerò arrestare sotto i miei occhi, nel mio palazzo, un gentiluomo come voi.

– Che cosa volete fare, signora?

– Salvarvi!

– In qual modo?

– Seguitemi tutti e, soprattutto, fate presto. Il capitano degli alabardieri sarà irritato per questa lunga attesa.

Aprí la porta del salotto e introdusse i tre corsari in una stanza da letto, la sua probabilmente, a giudicare dalla ricchezza della mobilia, e s’avviò ad un caminetto che era chiuso da una lastra di bronzo lavorata a cesello. Mise una mano su uno dei tanti fiori che la ornavano e premette rapidamente. La lastra subito scattò, aprendosi: Tosto apparvero dei gradini che conducevano in alto.

– È un passaggio segreto, aperto nello spessore della muraglia – disse la marchesa – e da tutti ignorato. Conduce ad una delle piccole torricelle che s’innalzano sul tetto. Salite e aspettatemi lassú piú tardi.

– Il bacio, marchesa – disse il conte.

La bella signora gli porse la mano.

Il corsaro vi depose un bacio, poi si slanciò su per la scaletta, seguito da Mendoza e da Martin.

La marchesa rinchiuse la lastra, mormorando: – Povero giovane! Uccidere un cosí valorose gentiluomo? No, non voglio; anche essendo un nemico del mio paese, io lo salverò, checché debba accadermi. Non voglio che si dica che un Montelimar ha tradito un suo ospite.

Chiuse la porta ed entrò nel salotto, mettendosi a centellinare una tazzina di cioccolata, sforzandosi di parere perfettamente tranquilla.

Un momento dopo il maggiordomo entrava, annunziando il capitano Pinzon.

– Passi pure – rispose la marchesa continuando a sorseggiare la cioccolata.

Il capitano degli alabardieri, un soldataccio con due enormi baffi grigiastri e gli occhi vivissimi, entrò togliendosi il cappello di feltro.

– A quale onore debbo la vostra visita? – chiese la marchesa, sempre tranquilla, additandogli una poltrona. – Spero che accetterete un po’ di cioccolata che viene dal Guatemala, dal paese cioè che produce la piú eccellente cioccolata del mondo.

Il capitano rimase un po’ sorpreso, poi disse: – Perdonate, signora, se vi disturbo; ma sono stato mandato dal governatore della città.

– Per arrestarmi? – chiese la bella vedova ridendo.

– Non voi, ma una persona che poco fa deve aver fatto colazione qui, con voi.

– Eh, che cosa dite, capitano? – esclamò la marchesa aggrottando la fronte e alzandosi di scatto.

– Arrestare chi?

– Quel conte che si veste tutto di rosso.

– Lui! Un gentiluomo?

– Un bandito, signora!

– Lui? È impossibile!

– È un Ventimiglia, un parente di quei terribili corsari che con Pierre le Grand, con Laurent, con Wan Horn e con l’Olonese, hanno espugnato tante città del Golfo del Messico.

– Oh, mio Dio! – esclamò la marchesa, lasciandosi cadere sulla poltrona.

– Se vi foste ingannati?

– Abbiamo la prova che è certamente un Ventimiglia.

– In quale modo avete potuto ottenerla?

– La lama che era rimasta infissa nel petto del conte di Sant’Iago portava inciso il nome del suo uccisore.

– Allora avrete già distrutta la sua fregata?

– Non ancora, marchesa – rispose il capitano. – Aspetteremo che la notte cali per abbordarla. Dov’è quel signore?

– È già partito.

– Partito? – esclamò il capitano diventando livido.

– Mi ha lasciato mezz’ora fa, dopo aver fatto colazione con me, dicendomi che andava a fare una passeggiata nel giardino.

Il capitano si diede un pugno sulla corazza.

– Che egli mi abbia veduto attraversare le cancellate del giardino? – sí domandò, tirandosi furiosamente i baffi. – Fuggito! Ma dove? Si sarà probabilmente nascosto in qualche luogo… Diaz!

Un sergente degli alabardieri, a quella chiamata, entrò nel salotto.

– Prendi dieci uomini e va a frugare il giardino del palazzo. Forse il corsaro è ancora là.

– Subito, capitano – disse il sergente, uscendo rapidamente.

– Signora marchesa, – disse il capo del drappello, quando furono nuovamente soli – io ho l’ordine di visitare minutamente le vostre stanze.

– Fate pure, capitano i rispose la bella vedova. – Ma sono certissima che non lo troverete nel mio palazzo.

– Eppure io sono sicuro, signora, di poterlo scovare in qualche luogo – rispose il capitano. – Dalla città non può uscire, perché tutte le porte sono bene guardate; imbarcarsi nemmeno, perché sulle calate abbiamo mandato parecchi drappelli di soldati, e la sua nave sta per essere circondata dai galeoni e dalle caravelle. È ora di finirla con questi Ventimiglia e noi la finiremo. Signora, vado a visitare il palazzo.

CAPITOLO IV. LA CACCIA AL CONTE DI VENTIMIGLIA

Il figlio del Corsaro Rosso, sempre seguito da Mendoza e dal mulatto, i quali non parevano troppo spaventati per la brutta piega che stava per prendere quell’avventura, si era lanciato su per la gradinata.

Come aveva detto la Marchesa, quella scala era stata costruita nello spessore d’una muraglia e probabilmente doveva aver servito a nascondere i tesori del palazzo per sottrarli alle avide ricerche dei filibustieri e dei bucanieri, i quali già piú volte avevano saccheggiato San Domingo. Era cosí stretta peraltro, che certe volte Mendoza, il piú grosso di tutti, si trovava molto imbarazzato a salire.

Quell’ascensione durò un paio di minuti, poi i tre corsari si trovarono in una piccola stanza o, meglio, in una specie di solaio illuminato da una sola finestra, abbastanza vasta perché un uomo potesse passarvi.

– Dove siamo? – si chiese il conte.

– In qualche nido di gufi – rispose Mendoza. – Di quassú si scorgono dei tetti.

– Questo deve essere uno dei quattro pinnacoli che adornano il palazzo – disse Martin.

– Siamo diventati falchi, camerata.

– Meglio falchi che gente da appiccare, mio caro Mendoza – rispose il conte.

– Non dico di no, signore. Ai baschi come me non è mai piaciuta la corda, specialmente quando è stata intrecciata dagli spagnuoli, perché è la piú pericolosa, almeno per le persone della nostra specie.

– Eppure sei uno stretto parente degli spagnuoli.

– È vero, capitano, ma non sono mai andato d’accordo con loro.

– E questo è forse un male – rispose il conte. – Avresti almeno potuto pregarli di lasciarci libero il passo per raggiungere la fregata.

– Uhm! – fece Mendoza, strappandosi tre o quattro capelli – I castigliani non sono cosí ingenui. Mi avrebbero senz’altro preso ed appiccato al piú alto pennone dei loro galeoni, come un pirataccio qualunque.

– Cosí, dovremo rimanere in questo nido di avvoltoi o di gufi, come tu hai detto, finché la marchesa non avrà trovato un modo qualunque per farci scappare.

– Voi non avete pensato, signor conte, che tre metri sotto di noi vi sono dei tetti.

– Che cosa vuoi dire, Mendoza? – chiese il figlio del Corsaro Rosso, colpito da quella risposta.

– Che si potrebbe spiccare un salto e andarcene tranquillamente, prima che quei dannati alabardieri ci facciano vedere i loro elmetti.

– E andarsene come ladri, senza nemmeno avvertire la generosa donna che ha cercato di salvarci? Dov’è la galanteria, Mendoza?

– Quando si tratta di salvare la pelle, io non mi occupo mai della galanteria, signor conte. Io non sono che un marinaio.

– Allora serba i tetti per piú tardi – rispose il figlio del Corsaro Rosso.

– Io e Martin aspetteremo finché voi vorrete, signor conte. Sapete bene che siamo uomini d’arme e che non ci è mai spiaciuto menar le mani. Quanti colpi di spada ho dato, quando navigavo agli ordini di vostro padre!

– Taci Mendoza – gridò il conte con voce alterata.

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