Emilio Salgari - Il figlio del Corsaro Rosso

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– Avete ragione, capitano: io sono un bestione grosso come una balena, – rispose il vecchio marinaio.

Il conte si era appoggiato al davanzale della finestra e, spingendo ansiosamente lontano gli sguardi, attraverso l’immensa selva di campanili e di torricelle, cercò di scoprire la sua fregata, ancorata presso la bocca del porto, ma senza riuscirvi.

Un’ansietà indescrivibile l’aveva preso e tendeva gli orecchi, temendo sempre di udire una bordata di cannonate, annuncianti il principio della lotta contro la sua nave. Si trovava in osservazione da una mezz’ora, quando udí Mendoza che esclamava:

– La signora marchesa!

Il figlio del Corsaro Rosso si voltò bruscamente e vide la bella vedova entrare nella soffitta, pallidissima, sconvolta.

– Voi, marchesa? – esclamò il conte, con meno strepito dei suoi uomini. – Che cosa venite ad annunciarci?

– Che siete presi! – rispose la signora di Montelimar con voce rotta.

– Hanno dunque scoperto il nostro rifugio? – chiese il conte estraendo la spada.

– Il mio maggiordomo mi ha avvertito che il capitano degli alabardieri ha dato l’ordine di visitare il tetto e anche le torricelle. Se vi trovasse, vi arresterebbe.

– Non sarebbe una cosa facile, signora, – rispose il corsaro con voce tranquilla.

– Voi non mi avete capito, conte

– Anzi, ho capito benissimo.

– E vorreste impegnare la lotta su un tetto, contro venti alabardieri e un capitano che gode fama di essere coraggiosissimo?

– Ma no, marchesa. C’è sempre tempo a batterci.

– E allora? – chiese la bella vedova con grande ansietà

– Si fugge prima che giungano – rispose il conte.

– E dove?

– Buon Dio, è una cosa semplicissima, marchesa. Si salta sul tetto del palazzo, si cerca il primo abbaino e si discende.

– Cosí vestito?

– Cambierò costume – rispose il corsaro sorridendo. – Diventerò momentaneamente piantatore, contadino, facchino del porto, marinaio o qualche cosa di simile.

– E andrete…?

– Che ne so io? Certo non a bordo della mia fregata. Sarebbe come gettarsi in bocca al lupo.

– Credete di poter uscire dalla città, signor conte?

– Io non ne dubito.

– Ho una tenuta a S. Pedro, a sei leghe dalla città.

– Benissimo.

– Manderò immediatamente il mio maggiordomo, perché avverta il mio intendente di ricevervi.

– Volete ospitarci nella vostra villa?

– Voglio salvarvi – disse la marchesa con voce commossa.

– E noi, marchesa, giacché c’invitate in campagna, accettiamo – disse il figlio del Corsaro Rosso con voce perfettamente tranquilla. – Cosí ci riposeremo delle fatiche del mare.

– E la vostra nave?

– Se la caverà meglio di quello che crediate, signora. Ho a bordo un luogotenente che non ha paura di affrontare il fuoco. Potremo rivederci, marchesa, almeno per ringraziarvi di quanto avete fatto per noi?

– Ve lo prometto.

– A S. Pedro?

– Sí, conte.

– Addio, signora: noi fuggiamo. Il conte si levò il cappello di feltro per salutarla, poi balzò sul davanzale e spiccò risolutamente un salto, fracassando tre o quattro tegole. Mendoza e Martin lo seguirono.

– Saldi in gamba, amici – disse il conte, salutando una seconda volta la marchesa che si era affacciata alla finestra. – E soprattutto non fate rumore.

Sguainarono le spade e si misero in marcia, tenendosi curvi per non farsi troppo notare dalle persone che potevano affacciarsi alle finestre delle case. Fortunatamente il palazzo era unito nella parte posteriore ad una lunga fila di fabbricati, sicché i fuggiaschi poterono continuare la loro fuga per piú di seicento o settecento metri.

– Toh! – esclamò ad un certo momento il conte, fermandosi. Mi hanno raccontato molte volte che anche a mio zio, il Corsaro Nero, era toccato una volta di dover fuggire su pei tetti e che era riuscito a cavarsela magnificamente. Perché non avrà altrettanta fortuna il nipote? Bah, vedremo!

Erano discesi sul tetto di un’altra casa ed avevano ripreso la marcia. Continuarono cosí per circa cinquecento metri, senza alcun allarme né alcun incidente spiacevole; poi si fermarono dinanzi ad un abbaino, la cui finestra era chiusa solamente da una grata di legno.

– Ecco un bellissimo nascondiglio – disse il conte.

– Purché non diventi invece una trappola, capitano! – esclamò Mendoza. – E poi non sappiamo dove metta.

– Mette in una casa.

– Lo credo benissimo, signor conte; ma la casa sarà abitata e non so come ci accoglieranno gli abitanti.

– Vedendomi vestito di rosso mi prenderanno per il diavolo in persona – rispose il fiero giovane ridendo – e scapperanno, ne sono certissimo. Martin, strappa quella grata.

– Subito, capitano – rispose il robusto mulatto. – Non sarà un affare né lungo, né difficile.

Afferrò con le due mani la sbarra centrale, appoggiò le ginocchia contro il muro e tirò violentemente a sé. Fu un vero miracolo se non rotolò giú dal tetto insieme alla grata. Buon per lui che Mendoza gli si era posto dietro, sicché fu pronto ad afferrarlo e a fermarlo.

– Volevi fare un salto nella strada? – chiese il basco. – Hai dei brutti gusti, amico.

– Silenzio! – disse il conte, il quale aveva cacciato la testa dentro l’abbaino. – Mi pare che qualcuno russi.

– Ah, diavolo! – borbottò Mendoza, grattandosi la nuca. – Ecco che la faccenda comincia a diventare seria.

– Seguitemi.

– No, capitano, lasciate prima passare me.

Era troppo tardi. Il corsaro era già sceso in una stanzetta semioscura, ammobiliata miseramente, poiché non vi erano che un letto, un tavolino sgangherato ed un paio di sedie, sulle quali stavano una corazza e dei vestiti da soldato.

– Avrei preferito che abitasse questo bugigattolo una bella fanciulla, – mormorò il basco.

Il conte si era accostato al letto con la spada alzata, pronto a colpire. Il proprietario della stanzetta russava beatamente, quasi interamente nascosto sotto le lenzuola.

– Se si potesse scappare senza svegliarlo! – mormorò il conte. – Mendoza, vi è la chiave nella toppa della porta?

– Non la vedo.

– Devo buttarla giú? – chiese Martin, facendosi innanzi sulle punte dei piedi.

– Allora si sveglierà.

In quel momento il proprietario del bugigattolo, il quale aveva forse, da buon soldato, il sonno leggero, si alzò di colpo a sedere, poi, scorgendo gli intrusi, si gettò rapidamente dall’altra parte del letto, impugnando una draghinassa e urlando:

– Ah, bricconi! Derubare un soldato? Mai!

Stava per slanciarsi coraggiosamente addosso ai tre corsari, quando un grido di spavento gli sfuggí:

– Il diavolo! Sogno o sono desto?

Aveva scorto il figlio del Corsaro Rosso e, vedendolo vestito in quel modo, non c’è da stupirsi che lo avesse preso per un demonio, specialmente in quell’epoca in cui tutti erano, e specialmente gli spagnuoli, superstiziosissimi.

– Non sono il diavolo – disse il conte – bensí un suo stretto parente.

– Allora siete un uomo come me, entrato qui per spaventarmi e per derubarmi – disse il soldato, agitando minacciosamente la sua draghinassa. – Fuori, o vi uccido tutti come polli.

– Ehi, non gridate troppo forte, perché potreste perdere la lingua – disse il conte. – Vi avverto prima di tutto che io non sono un ladro, ma un gentiluomo e che non ho affatto bisogno dei vostri stracci.

– Che cosa volete, allora?

– Nient’altro che il vostro vestito, pagandolo, s’intende. Quanto lo stimate?

– Per che cosa farne?

– Alto là, amico! Io non ho l’abitudine di raccontare i miei segreti al primo che incontro.

– E poi? Volete qualche altra cosa?

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