Emilio Salgari - Il figlio del Corsaro Rosso

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Il giovane represse un sospiro, poi disse a mezza voce::

– È strano; anche mio zio…

Ma tosto s’interruppe, stringendo le labbra.

– Che cosa avete detto, conte? – chiese la marchesa di Montelimar.

– Che la musica è ottima, e che si potrebbe danzare questo delizioso fandango.

– Era quello che volevo proporvi.

– Ai vostri ordini, marchesa.

Le danze erano già state riprese.

Dame e cavalieri giravano vorticosamente nelle splendide sale del palazzo di Montelimar, elettrizzati da una dozzina di suonatori nascosti dietro ad una specie di giardinetto formato da una doppia fila di superbi banani, le cui grandissime foglie s’alzavano fino al soffitto dorato.

Il conte cinse il fianco della marchesa e si slanciò agilissimo nel turbine dei danzatori e delle danzatrici.

Alcuni si erano fermati per ammirare quel bellissimo giovane e la sua bellissima compagna, stupefatti della sua leggerezza e della sua grazia.

Mai prima d’allora avevano veduto danzare a quel modo un uomo di mare.

Il fandango era appena finito e il conte aveva ricondotta la marchesa al suo posto, quando alle sue spalle udí una voce che gli disse:

– Signore, voi che danzate cosí bene, sapete giocare altrettanto bene?

Il giovane capitano della Nuova Castiglia si voltò vivamente e non seppe frenare un moto di sorpresa nel vedersi dinanzi il capitano degli alabardieri del reggimento di Granata.

Il conte lo fissò per un momento; poi rispose con accento ironico:

– Un gentiluomo deve saper danzare, saper giocare e dare anche colpi di spada quando gli si offre l’occasione.

– Vi ho proposto solamente di giocare, per ora – disse il capitano degli alabardieri.

– Se ciò può farvi piacere eccomi ai vostri ordini, conte di Sant’Iago.

– Come? Mi conoscete? – esclamò il capitano, facendo un gesto di stupore.

– Cosí… per caso

La marchesa di Montelimar, un po’ pallida, si era alzata.

– Che cosa volete, conte di Sant’Iago dal conte de Miranda? – chiese.

– Null’altro, signora, che proporgli una partita al montes – rispose il capitano. – Gli uomini di mare preferiscono il gioco alla danza; è vero, conte?

– Qualche volta – rispose asciuttamente il giovane.

– E poi avete già danzato una volta con la regina della festa.

– Ma se la marchesa desiderasse fare un altro giro rinunzierei subito alla partita che voi mi proponete, checché dovesse succedere.

– La notte non è ancora finita, e avrete tempo di muovere le gambe finché vorrete – disse il capitano degli alabardieri con sottile ironia.

– Non giocate, conte – disse la marchesa.

– Oh, non farò che una sola partita! – rispose il giovane capitano. – Sono distrazioni che piacciono alle genti che navigano. Andiamo, signor di Sant’Iago.

Baciò galantemente la mano alla marchesa di Montelimar e seguí il burbero capitano degli alabardieri, non senza aver prima fatto alla bella vedova un leggero cenno, come per dirle:

– Non vi preoccupate per me.

Attraversarono l’ampia sala sfolgorante di luce, dove capitani di terra e di mare danzavano allegramente insieme con le piú leggiadre signore e signorine di San Domingo, ed entrarono in un salottino dove una dozzina di ufficiali, per la maggior parte vecchi, stavano giocando e fumando grossi sigari avana, senza occuparsi affatto della festa da ballo.

Dei dobloni semplici e doppi scintillavano sui tavolini da giuoco, e dadi e carte venivano gettati con una certa noncuranza, piú affettata che reale, dai giocatori.

– Signor conte, – disse il capitano degli alabardieri – preferite le carte o i dadi?

Il giovane capitano di fregata parve pensare un momento, poi disse:

– I dadi mi pare che diano un’emozione piú violenta delle carte, e ciò va benissimo per gli uomini di guerra abituati ai colpi di spada e di cannone. Non vi pare, signor di Sant’Iago? Non siamo dei tranquilli piantatori di canne da zucchero o d’indaco!

– Avete dello spirito, conte.

– Di mare, condito con molto sale – disse il giovane sorridendo. Noi siamo uomini molto salati.

– Mentre noi siamo molto profumati, invece – rispose il capitano degli alabardieri di Granata.

– Perché?

– Viviamo sempre nei boschi, alla caccia dei bucanieri.

– E ne uccidete molti di quei furfanti?

– Uff! qualche volta qualcuno cade sotto i nostri archibugi, ma quasi mai sotto le alabarde delle nostre guardie. Appena quei furfanti odono lo sparo d’un archibugio, invece di attaccare, scappano come lepri.

– Chi? I bucanieri o i nostri?

– I nostri, conte.

– Hanno tanta paura?

– Basta talvolta un bucaniere bene imboscato per mettere in rotta i nostri alabardieri; e notate che non si mettono mai in campagna, se non sono almeno cinquanta.

– Bel coraggio! – disse il conte de Miranda con un sorriso un po’ sarcastico.

– Carrai! vorrei veder voi al loro posto!

– Li attaccherei a fondo alla testa dei miei marinai.

– Si vede, infatti, che bella figura fanno i marinai che montano i nostri galeoni! – osservò il capitano beffardamente. – Dopo le prime cannonate, abbassano il grande stendardo di Spagna e consegnano ai furfanti della Tortue le verghe d’oro che hanno nella stiva.

– I miei veramente… Il conte di Miranda si fermò mordendosi le labbra come pentito di essersi lasciato sfuggire quella frase e disse:

– Capitano, volete dunque che giochiamo?

– Vi avevo invitato per questo. Vedremo se l’amore porta fortuna o sfortuna.

– Che cosa volete dire?

Il conte di Sant’Iago, invece di rispondere, fece un segno ad un servo negro gallonato vestito di seta e gli ordinò:

– I dadi: vogliamo giocare.

– Subito, signor conte.

Un momento dopo il servo portava su un piatto d’argento finemente cesellato una piccola tazza d’oro con due dadi di dente di marsuino.

– Che giochiamo, signor conte de Miranda? – chiese il capitano degli alabardieri.

– Quello che volete.

– Badate a quello che dite.

– Perché, signor conte di Sant’Iago? – chiese il giovane con affettata indifferenza.

– Carrai!

– Caramba! Bestemmiate, signor conte.

– Ed anche voi, mi pare.

– Oh! Io sono uomo di mare! D’altronde nessuno vi proibisce di bestemmiare. Le genti di terra e di mare qualche volta vanno pienamente d’accordo su questo.. terreno.

– Avete dello spirito, conte.

– Qualche volta.

– Giocate? – chiese il capitano.

– Ve l’ho già detto: quello che desiderate.

– Una pelle viva?

Il giovane guardò il capitano con sorpresa

– Non vi comprendo: quale può essere questa pelle viva? Quella d’un pescecane forse?

Il capitano degli alabardieri di Granata si mise le mani sui fianchi, con un fare provocante, poi disse con voce grave:

– Fra gli uomini d’arme di terra usa giocare una pelle, quando si è stanchi di gettare dell’oro sul tavolo.

– Ossia? – chiese il conte de Miranda con calma.

– Quello che perde si fa saltare il cervello con un colpo di pistola.

– Brutto giuoco!

– Anzi interessantissimo, perché si giuoca la vita d’un uomo.

– Preferisco arrischiare i miei dobloni – rispose il giovane. – Lo trovo

piú comodo.

– E quando non se ne hanno piú?

– Si lascia il tavolino da giuoco e si va a dormire nella cabina: almeno cosí usa nella marina.

– Non fra noi però!

– Che diavolo! Sareste uomini tanto diversi, signor conte?

– Può darsi! – rispose seccamente il capitano.

– Avete pessimi gusti.

– Volete offendermi?

– Io? Niente affatto, capitano, sono venuto qui per giocare e non per arrabbiarmi o suscitare uno scandalo. Che cosa si direbbe di me?

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