Emilio Salgari - La perla sanguinosa
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«E il Guercio mi terrà compagnia almeno?» chiese Palicur, il quale non dimostrava alcuna apprensione per la terribile condanna che gli era stata inflitta.
«Non occuparti del 304.»
«Già, perché è un protetto del direttore nella sua qualità di spia.»
«Basta! – gridò il capo, alzando minacciosamente il pugno. – Presto, legate questo pappagallo mal dipinto.»
Il malabaro, udendo quelle parole, si alzò a sedere, mandando un urlo di furore.
«Sappi, sergente, che l›uomo che tu hai chiamato pappagallo è un discendente dei rajah di Calicut, di quei rajah che diedero tante terribili lezioni ai tuoi compatrioti, prima di venire dispersi per l’India.»
«Ma ora non sei che un forzato.»
«Condannato quasi innocente. Se ho ucciso era nel mio diritto.»
«Già, tutti dicono così; sempre innocenti, – disse il capo ghignando. – Lesti!»
I tre guardiani staccarono le catene fissate agli anelli del tavolato e liberarono le gambe del malabaro, il quale con un balzo fu subito in piedi.
«Eccomi, – disse, – ma giuro su Sivah che se quel maledetto cingalese non condividerà la mia pena, appena rimessomi in gambe lo ucciderò.»
«E noi ti impiccheremo, – rispose il sergente, – così avremo due bricconi di meno da sorvegliare e due bocche di meno da sfamare. Avanti, in cammino!»
«Ed io?» chiese il quartiermastro, mentre strizzava l›occhio al malabaro.
«Tu rimarrai qui per otto giorni, – rispose il capo. – È un riposo che non ti guasterà le ossa.»
«Io sono ammalato e non potrò resistere. Volevo anzi, fino da ieri, fare domanda di essere passato nell›infermeria. Temo di venire colto dall›itterizia.»
«Te la sbrigherai col medico, se avrà tempo di venire a trovarti.»
«Vi prego di avvertirlo. Ho un tremito incessante che non mi lascia un momento. Sono un vostro compatriota, dopo tutto.»
Il sergente alzò le spalle e uscì borbottando: «Quando giungerà. Ora è a caccia.»
E chiuse la porta con fracasso, facendo scorrere i grossi catenacci.
«Canaglie, – mormorò il quartiermastro, quando fu solo. – Risparmiano la spia e torturano quel povero malabaro. Bisogna che ce ne andiamo, dovessimo pagare colla nostra vita la libertà, altrimenti una volta o l’altra Palicur commetterà uno sproposito contro quel cane di un Guercio e si farà impiccare.
«No, quell›uomo che possiede una forza straordinaria non deve morire. Egli mi è troppo necessario e l›ora è giunta per tentare la fuga. La scialuppa a vapore sarà a nostra disposizione. Se tardassimo ancora un mese, i tifoni ed il monsone ci impedirebbero di avventurarci sul mare con qualche probabilità di successo.
«Fra poco Palicur sarà nell›infermeria col dorso sanguinante: e ci sarà anche l’altro. Raggiungiamoli.»
Si levò a sedere, per quanto glielo consentiva la lunghezza della catena, e si mise in ascolto. Non udendo il più lieve rumore, si aprì la camicia e da una cintura di pelle che gli stringeva il torso levò con precauzione una scatoletta di fibre di cocco, contenente otto sigarette ed alcuni zolfanelli.
Le osservò attentamente palpandole più volte, poi disse:
«Sono perfettamente asciutte e si lasceranno fumare. Io coll›itterizia, il macchinista colle guance gonfie, Palicur col groppone rovinato. Chi sospetterà che tre uomini ridotti in tale stato pensino a fuggire? Purché nel frattempo non scoprano il cilindro della macchina! In tal caso tutto sarebbe perduto.»
Accese una sigaretta e si mise a fumarla frettolosamente, poi ne accese un’altra e continuò finché le ebbe quasi tutte consumate.
Aveva appena finito l’ultima, quando fu preso da vomiti violentissimi.
«Ecco l›itterizia che giunge, – disse, sforzandosi di sorridere. – Fra pochi minuti il mio corpo diventerà giallo come quello di un vero malato e il gioco sarà fatto!»
3. Le astuzie dei forzati
Le furberie dei forzati per procurarsi delle malattie artificiali, che li esonerino per qualche tempo dai durissimi lavori dei cantieri, sono tali da far stupire ed essi riescono così bene nella finzione da ingannare i più abili medici. Le frodi tentate dai coscritti per essere dichiarati inabili al servizio militare, sono puerili in confronto a quelle escogitate dai forzati per avere qualche giorno di malattia e venire perciò trattati con un certo riguardo.
Nella loro impazienza di sottrarsi al lavoro che li accascia, i galeotti dei penitenziari hanno tutte le audacie, tutte le furberie. Davanti a quell’idea fissa di riposo, – che i guardiani e i medici chiamano poltroneria, forse ingiustamente, – sparisce perfino la loro sensibilità, e si sono veduti taluni mutilarsi atrocemente, altri provocare e mantenere pazientemente delle malattie per lunghi e lunghi mesi, e anche rovinarsi per sempre.
Quei disgraziati hanno dei segreti che si trasmettono l’uno all’altro e che la sagacia dei medici difficilmente riesce a scoprire.
Una delle malattie preferite dai forzati, perché obbliga gli infermieri a trattenerli a letto parecchie settimane, è appunto l’itterizia. Per simulare o provocare quella malattia, vi sono due mezzi ai quali i galeotti ricorrono indifferentemente.
Il primo consiste nel mettere un po’ di tabacco a macerare in un po’ d’olio di cocco per cinque o sei ore, poi seccarlo e fare delle sigarette aggiungendo al preparato un po’ di fosforo preso dai fiammiferi. Basta fumare sette od otto di quelle sigarette perché apparisca su tutto il corpo la tinta gialla caratteristica degli itterici. Il medico per di più rileva subito anche un certo imbarazzo gastrico con vomiti e febbri e si vede obbligato a mandare il volontario dell’itterizia all’ospedale.
Il secondo mezzo è altrettanto semplice. Il forzato si mette sotto le ascelle un pacchetto di cotone imbevuto di aceto e spolverizzato con un po’ di zafferano, quindi si copre molto per provocare un copioso sudore e dopo due ore prova dapprima un senso di calore nel petto e quindi in tutte le membra; è questo il segno dell’apparizione della tinta itterica che in pochissimo tempo invade tutti i tegumenti e le congiuntive. L’uso quotidiano di quel cotone mantiene poi la pseudo-itterizia, permettendo così all’astuto forzato di prolungare la sua permanenza nell’ospedale.
Ma le malattie artificiali non si limitano alla sola itterizia. Ben altre essi sanno provocarne con dei mezzi sorprendenti che farebbero stupire gli stessi medici se potessero conoscerli.
Alcuni, per esempio, preferiscono la congiuntivite. Per procurarsela spargono della cenere di tabacco nell’interno della palpebra inferiore, oppure fanno molte lavature con acqua saponata. Si sono veduti anzi taluni forzati diventare completamente ciechi facendo troppo uso della cenere di tabacco.
Altri preferiscono la dissenteria e per ottenerla, specialmente i forzati dei penitenziarii della Guiana francese, inghiottono dei semi d’una pianta chiamata dagl’indigeni «panacoco» ( hura crepitans ) che esercitano una grande azione irritante, maggiore di quella che produce l’olio di croton.
Fu la morte di uno di quei disgraziati a svelare il segreto di quelle dissenterie che colpivano troppo di frequente i galeotti della Guiana e delle isole della Salute, il che diede luogo a provvedimenti proibitivi e severi da parte dei direttori dei penitenziarii, con grande ira dei galeotti che venivano in tal modo privati d’uno dei mezzi migliori e più semplici per darsi ammalati.
Di fianco alle ricette classiche si trovano pure invenzioni straordinarie di certi intellettuali del bagno che hanno trovato nuovi mezzi da aggiungere a quelli già conosciuti dai vecchi forzati.
Un galeotto, per esempio, che era stato studente in medicina, ha utilizzato le sue conoscenze chimiche per insegnare ai suoi compagni di pena il modo di procurarsi con poca spesa un rigonfiamento pronunciatissimo dello stomaco. Per ottenere quella malattia raccoglieva tutte le cannucce delle vecchie pipe che poteva trovare, specialmente di quelle di gesso, le riduceva in polvere e faceva trangugiare al «paziente» un po’ di quella miscela di terracotta e di gesso insieme ad un bicchierino d’aceto. Quegli elementi producevano nello stomaco una grande quantità di acido carbonico che lo dilatava enormemente, simulando così la classica dilatazione di stomaco.
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