Emilio Salgari - La perla sanguinosa

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«T›aspettavo, figliol mio, – disse il guardiano. – Non ho mai provato una sete così terribile come questa sera.»

«Sono sempre di parola, – rispose il mulatto. – È una bottiglia uguale a quella di ieri ed esce dalla cantina del governatore.»

«Figliol mio, – disse l’irlandese, – non vorrei che fossero le tue mani anziché quelle del signor governatore a tirarle fuori dalle tenebre. Tanta generosità da parte di quel signore, e verso un forzato, mi pare poco naturale. Bada, Jody, io sono un galantuomo innanzi tutto, e non tengo mano ai ladri.»

«Oh! Signor Foster! – esclamò il macchinista, fingendosi addolorato e nello stesso tempo indignato. – Mi credereste capace di derubare il governatore? Potete berla con animo tranquillo: ho ucciso, è vero, e mi hanno condannato; ma non ho mai rubato.»

«Sono stato uno stupido a sospettare di te, – disse l›irlandese. – Dammi la bottiglia, cuor d›oro, e facciamo la pace.»

«Un bicchiere prima agli ammalati, se me lo permettete.»

«Sì, va›, buon figliuolo.»

Jody empì, come la sera precedente, le due tazze e mentre l’irlandese dava l’attacco alla bottiglia, entrò nell’infermeria chiudendo la porta.

Il quartiermastro ed il malabaro si alzarono subito.

«Tutto va bene, – disse rapidamente il macchinista. – Non vi sono che due sentinelle lungo il viale ed ho promesso di vuotare insieme a loro un litro di gin. Passate dietro la siepe e andate ad aspettarmi nella scialuppa.»

«E Foster?» chiese Will.

«Sta bevendo e fra poco sarà così ubriaco da non vedere né udire nulla. È montata la sega?»

«Sì.»

«Agite subito, mentre io trattengo quell›ubriacone per qualche minuto, e non scendete dal letto finché non mi vedrete uscire.»

«E il Guercio?» chiese Palicur.

«È da lui che dovete guardarvi. Quel cane veglierà, non ne dubitò. Suvvia, bevete, spegnete il lume e filate. Se non riusciamo questa notte, non scapperemo più mai, perché temo che il Guercio abbia indovinati i nostri disegni.»

Diede loro le tazze, fece cenno di non far rumore, passando spense la lampada, e raggiunse il sorvegliante che non aveva cessato di baciare la preziosa bottiglia.

Appena la porta fu chiusa, udirono il mulatto dire all’irlandese:

«Si sono riaddormentati quei poveri diavoli. Non sono abituati al ginepro del governatore.»

Il quartiermastro ed il malabaro scivolarono giù dai letti portando con loro la macchinetta e le lenzuola annodate.

«Puoi reggerti?» chiese Will all›indiano.

«Non temete per me, se il dorso è ancora malandato, le ossa sono intatte e i muscoli sempre solidi.»

Stettero un momento in ascolto e, udendo nel corridoio il macchinista e l’irlandese chiacchierare, s’accostarono a una delle quattro finestre, quella situata presso l’angolo, la più lontana dalla porta d’ingresso.

Il quartiermastro con una chiavetta montò la macchinetta che nella forma rassomigliava ad una bussola, munita d’una piccola sega circolare sporgente d’acciaio temperato, della circonferenza di sei o sette centimetri, e l’accostò ad una delle sbarre.

Tosto la sega si mise a girare rapidissima, mordendo il ferro, senza produrre quasi rumore. Will, seguendo le istruzione del mulatto, l’aveva già abbondantemente unta coll’olio sottratto alla lampada, onde non producesse alcun stridore.

«È meraviglioso questo minuscolo congegno, – disse il quartiermastro, che si sentiva spruzzare da piccoli frammenti metallici. – Vi sono pochi meccanici abili come quel Jody. Questa sega vale un tesoro.»

«Morde bene?» chiese il malabaro sottovoce.

«Fra mezzo minuto questa sbarra sarà segata.»

«Saremo costretti a toglierne quattro ed a compiere otto tagli.»

«È questione di cinque minuti: là, guarda, è finita..»

«Recisa?»

«Sì.»

«Dall›altra parte, signor Will.»

Il quartiermastro ricaricò la molla e ricominciò sull’opposta estremità della sbarra.

Nel frattempo nel corridoio si udivano sempre la voce un po’ nasale del mulatto e quella rauca dell’irlandese. Il primo teneva a bada il secondo, raccontandogli delle storielle amene che lo facevano di quando in quando ridere; ma che gl’impedivano di fare una improvvisa visita nell’infermeria, cosa poco probabile d’altronde, almeno finché vi era del ginepro nella bottiglia.

In capo a cinque o sei minuti le quattro sbarre erano a terra.

«È fatto, – disse il quartiermastro, respirando a pieni polmoni la brezza fresca della notte. – Dammi le lenzuola.»

Annodò solidamente un capo ad una delle sbarre superiori, poi guardò giù, lasciandole pendere.

«Il lenzuolo tocca il tetto del magazzino, – disse al malabaro. – La misura è giusta.»

«Vedete nessuno?»

«Solo gli alberi.»

«Che ci sia qualche sentinella lì sotto, dinanzi alla porta del magazzino?»

«Jody ci avrebbe avvertiti. Prendi una sbarra che potrà servire come arma di difesa in caso di pericolo e scendi per primo.»

«Sì, signor Will.»

Il malabaro scavalcò il davanzale, s’aggrappò alle lenzuola e si lasciò scivolare, stringendo fra i denti una delle sbarre divelte.

Quando il quartiermastro lo vide toccare il tetto, a sua volta discese.

«Adagio, signore, – gli sussurrò il malabaro. – Il tetto è di stoppie e scricchiolerà sotto i nostri piedi. Può esservi qualche guardiano che dorme sotto di noi.»

«È probabile, – rispose il quartiermastro, asciugandosi la fronte. – Diavolo, io non avevo pensato a questo.»

«Non facciamo rumore, signore. Le sentinelle non indugerebbero a farci fuoco addosso, se qualcuno desse l›allarme.»

«È vero ed in questo momento io pensavo al Guercio.»

«Volete spaventarmi signor Will? Non già che io abbia paura. di quell›uomo; anzi se me lo vedrò dinanzi non lo risparmierò.»

«Speriamo che dorma. Avanti adagio adagio e bada dove posi i piedi.»

Si gettarono bocconi, strisciando dolcemente, con infinite precauzioni, per timore che il tetto, che sentivano tremare sotto il loro peso, da un momento all’altro cedesse. Di frequente sostavano per ascoltare e per girare uno sguardo pauroso all’ingiro. Pareva loro di scorgere talora delle ombre umane avanzarsi sotto il viale e di vedere il lampo delle canne delle carabine.

Impiegarono non meno di cinque minuti a percorrere un tratto di pochi metri, poi finalmente si trovarono sull’angolo del tetto.

Non vi era che un salto di tre metri da spiccare sopra delle aiole dove i guardiani avevano piantato dell’insalata d’Europa, che cresceva stentatamente, nonostante le assidue cure dei coltivatori. La terra, che veniva smossa ogni giorno, doveva attenuare ogni rumore.

Prima di lasciarsi andare, Will guardò attentamente in tutte le direzioni, temendo che qualche sentinella s’avanzasse improvvisamente sotto il viale. Non scorgendo nessuno stava per spiccare risolutamente il salto, quando udì a cinquanta o sessanta passi una voce gridare:

«Chi vive?»

I due fuggiaschi, credendosi scoperti, si appiattirono sull’orlo del tetto. Una voce che rispose subito alla sentinella li rassicurò:

«Sono io: Jody.»

«Aspetta un momento a saltare, Palicur,» mormorò rapidamente il quartiermastro della Britannia .

Si sporse innanzi e vide il macchinista avanzarsi sotto il viale, portando in mano qualche cosa che rassomigliava a una bottiglia.

Quando scomparve sotto gli alberi, dove lo attendeva il sorvegliante di guardia per bere insieme un sorso di brandy o di gin, Will e Palicur si lasciarono cadere in mezzo alle zolle senza fare alcun rumore, essendo stata la terra smossa di recente.

«Gambe, ora! – disse il quartiermastro, – e apri bene gli occhi, Palicur. Vi può essere qualche guardiano presso l’imbarcadero.»

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